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Pedagogista e Pedagogista Giuridico ( CTU e CTP)

giovedì 4 settembre 2014

tesi di laurea L 18 in Educatore professionale sociale frontespizio l'introduzione e i primi tre capitoli

tesi di laurea L 18 in Educatore professionale sociale frontespizio l'introduzione e i primi tre capitoli

    ALMA MATER STUDIORUM –UNIVERSITA’ DI BOLOGNA


                       FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE

                  CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELL’EDUCAZIONE

                     INDIRIZZO: EDUCATORE PROFESSIONALE L18






                      IL COUNSELING NELLA RELAZIONE TRA

                          EDUCATORE PROFESSIONALE E

                            UTENTE TOSSIODIPENDENTE





                  TESI DI LAUREA IN PSICOLOGIA SOCIALE




PRESIDENTE SEDUTA DI LAUREA:
CHIR.MA PROF.SSA BRUNA ZANI

RELATORE:                                                                      LAUREANDA:
CHIAR.MA PROF.SSA                                                                VITTORIA SALICE
FRANCESCA EMILIANI                                                            MATRIC. N. 23003

CORRELATORE:                                                                   SEDUTA DI LAUREA:
CHIAR.MO PROF. 08-03-‘03
GIANNINO MELOTTI

                                                 SESSIONE III

                                     ANNO ACCADEMICO 2001-2002




                                            INDICE-SOMMARIO


INDICE- SOMMARIO…………………………………………………..1

INTRODUZIONE………………………………………………………..3

PRIMA PARTE…………………………………………………………..11
     UTILITÀ DEL COUNSELING E SUE METODOLOGIE……………….11
    1-COS’È IL COUNSELING?.....................................................12
        1.1.- INTRODUZIONE AL COUNSELING………………………….12
        1.2. LA TERAPIA CENTRATA SULLA PERSONA………………….14
    2-PRINCIPALI TIPI DI COUNSELING……………………………….15
       2.1.- PLURALITÀ DI COUNSELING………………………………..15
       2.2. –CAUNSELING BASATO SUL COMPORTAMENTISMO………..16
       2.3.- COUNSELING COGNITIVO E COGNITIVO-COMPORTAMENTALE 16
       2.4. COUNSELING DELL’APPRENDIMENTO SOCIALE……………16
       2.5. COUNSELING GESTALTICO……………………………………17
       2.6. CAUNSELING BASATO SULL’ANALISI TRANSAZIONALE…….17
       2.7. COUNSELING PSICOANALITICO……………………………….18
       2.8. COUNSELING ESISTENZIALE…………………………………..19
       2.9. CAUNSELING DELLA FAMIGLIA E SISTEMICO………………..19
       2.10. CAUNSELING  DI GRUPPO…………………………………….20
    3- PANORAMICA METODOLOGICA DEL COUNSELING……………….21
        3.1. DUE METODOLOGIE DIFFERENTI……………………………..21
        3.2. IL METODO DIRETTIVO…………………………………………21
        3.3.  FONDAMENTI DEL METODO NON DIRETTIVO…………………23
    4.- ROGERS E IL METODO NON DIRETTIVO……………………………26
        4.1. CARL ROGERS E LA TERAPIA CENTRATA SULLA PERSONA…..26
        4.2. NECESSITÀ DELL’EMPATIA………………………………………28
        4.3. SVILUPPO DEL METODO………………………………………….31
        4.4. LA COMUNICAZIONE NON VERBALE…………………………….32
        4.5. LA PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE……………………..37
        4.6. I FATTORI AMBIENTALI…………………………………………..39
        4.7. UN INCONTRO DI CAUNSELING…………………………………..40
        4.8. IL COUNSELING CON L’ADOLESCENTE…………………………..43

SECONDA PARTE…………………………………………………………..47
LA TOSSICODIPENDENZA……………………………………………………..47
     5- TIPOLOGIE DELLE DROGHE……………………………………………48
         5.1. COSA S’INTENDE PER DROGA?..............................................48
         5.2. CATEGORIE DI STUPEFACENTI…………………………………….49
         5.3. GLI OPPIACEI……………………………………………………….50
         5.4. GLI IPNOTICO SEDATIVI……………………………………………52
         5.5. GLI PSICOSTIMOLANTI……………………………………………..53
         5.6. GLI ALLUCINOGENI E LA CANNABIS………………………………55
         5.7. GLI INALANTI………………………………………………………..56
         5.8. GLI EFFETTI DELLE DROGHE………………………………………57
  6-ASPETTI PSICOLOGICI E SOCIALI…………………………………………58
        6.1. PROCESSI PSICOLOGICI COINVOLTI……………………………….58
        6.2. L’USO DI STUPEFACENTI A SCUOLA………………………………..59
TERZA PARTE…………………………………………………………………….62
   COUNSELING E TOSSICODIPENDENZA……………………………………….62
    7- MODALITÀ DI PREVENZIONE……………………………………………..63
       7.1. LA PREVENZIONE PRIMARIA………………………………………….63
       7.2. LA PREVENZIONE SECONDARIA……………………………………….63
        7.3. LA PREVENZIONE TERZIARIA………………………………………...63
  8. PRINCIPALI MODELLI D’INTERVENTO PRIMARIO……………………….65
       8.1. PRINCIPALI MODELLI D’INTERVENTO PRIMARIO………………….65
       8.2.  MODELLI FINALIZZATI A PERSUADERE……………………………..66
       8.3. MODELLO CENTRATO SULL’IMPEGNO………………………………..68
       8.4. MODELLO DEL PIEDE NELLA PORTA…………………………………..69
       8.5. PROGRAMMI INFORMATIVO EDUCATIVI………………………………69
       8.6. PROGRAMMI EDUCATIVO AFFETTIVI………………………………….71
       8.7. INCREMENTO DELLE RISORSE PERSONALI…………………………….71
   9. GLI APPROCCI COMPORTAMENTALI………………………………………….73
        9.1. CARATTERISTICHE ESSENZIALI…………………………………………73
        9.2. LE TECNICHE MOTIVAZIONALI…………………………………………..73
        9.3. IL TRAINING GROUP……………………………………………………….77
        9.4. IL TRAINING DI AUTOCONTROLLO COMPORTAMENTALE………………79
        9.5. IL TRAINING RIVOLTO ALL’ACQUISIZIONE DI ABILITÀ SOCIALI………81
        9.6. IL TRAINING CENTRATO SUL PROBLEM SOLVING………………………..82
        9.7. PROCEDURE PER FRONTEGGIARE GLI STATI DI STRESS…………………83

QUARTA PARTE……………………………………………………………………..85
  ESPERIENZA DI COUNSELING DI GRUPPO PRESSO LA SCUOLA I.P.S.I.A. A PACINOTTI DI FOGGIA…………………………………………………………….85
INTRODUZIONE……………………………………………………………………..86
     PRIMO GRUPPO…………………………………………………………………92
     SECONDO GRUPPO………………………………………………………………97
     TERZO GRUPPO………………………………………………………………….100

SECONDA FASE………………………………………………………………………103
  PRIMA SITUAZIONE………………………………………………………………..104
  SECONDA SITUAZIONE……………………………………………………………..106

CONCLUSIONI………………………………………………………………………..108

RINGRAZIAMENTI……………………………………………………………………110

BIBLIOGRAFIA………………………………………………………………………..111






































INTRODUZIONE
























E’ complesso tracciare un quadro chiaramente definito del ruolo dell’ educatore professionale, soprattutto per l’ambiguità del termine “educare”, quindi del concetto di educatore.
   tale termine deriva dal latino “educere”, che vuol dire “condurre fuori”, attività attribuita in modo specifico all’insegnante. oggi l’educatore ha maggiori responsabilità di una volta, infatti, gli si chiede non solo di formare l’adolescente, guidandolo e accompagnandolo nel suo processo di crescita attraverso risposte in grado di soddisfare i bisogni propri dell’età, ma anche di costruirsi professionalmente quale operatore in grado di effettuare attivamente interventi sociali nella risoluzione del disagio e della malattia.
secondo Chang (1985) la figura dell’educatore professionale risponde a quella domanda educativa che emerge nell’ambito extrascolastico, poiché la scuola sta gradatamente perdendo la caratteristica di agenzia educativa privilegiata  e si rivela incapace di rispondere a quelle richieste  che si fanno sempre più pressanti all’interno di ogni comunità educativa. Intendo riferirmi in modo particolare all’ascolto del disagio, all’assistenza, al cambiamento, alla riabilitazione, al benessere, al sostegno, alla prevenzione, alla capacità di stare all’interno di un gruppo.
La preparazione universitaria di un educatore professionale è vasta e abbraccia numerosi campi, quali la psicologia, la pedagogia, la filosofia, la sociologia e l’antropologia, ma anche l’igiene e il diritto. Si può comprendere come tale figura abbia una visione d’insieme del fenomeno educativo, riuscendo a rispondere efficacemente alle numerose esigenze presenti nel campo sociale.
Vi sono numerosi settori all’interno dei quali l’educatore può svolgere la propria attività. Ricordiamo i servizi per l’intercultura e l’integrazione, per l’ assistenza nelle situazioni di deficit, di diversabilità, di senescenza, ma è doveroso menzionare anche gli interventi postinfortunistici e postraumatici e i progetti educativi nelle diverse realtà del carcere, dell’azione della Polizia, dell’intervento giudiziario, nel sociale e sanitario, ed anche presso alcuni studio privati di pedagogisti e pedagogisti clinici oltre a quelli sviluppati nell’ambito della prevenzione secondaria e riabilitazione nelle dipendenze patologiche in genere e quindi dei tossicodipendenti.
E’ proprio in quest’ultimo tipo di servizi che i tecnici come l’educatore professionale sociale, in collaborazione  con i loro colleghi tecnici: di psicologia, di sociologia di antropologia, di filosofia, gli assistenti sociali, gli educatori professionali sanitari, gli infermieri professionali, le ostetriche etc. in collaborazione con altri professionisti (medici, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, psicoanalisti, pedagogisti, pedagogisti clinici, filosofi, sociologi, antropologi, assistenti sociali specializzati, etc.) è chiamato a svolgere il suo lavoro in éqipe.
L’area di ricerca che ho scelto nella realizzazione di questa tesi è la psicologia, più precisamente la psicologia sociale. Essa condivide molti interessi con altre discipline, in particolare con la sociologia e l’antropologia culturale, ma queste  ultime differiscono nell’oggetto di studio. I sociologi si occupano dei gruppi sociali e delle istituzioni, gli antropologi  delle culture umane, mentre gli psicologi sociali focalizzano la propria attenzione sul modo in cui i gruppi sociali, le istituzioni e le culture influenzano il comportamento degli individui.
Proprio per questo la psicologia sociale si occupa anche di fenomeni come la tossicodipendenza, che la World Health Organization (in italiano OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità) definisce come uno stato psicofisico risultante dall’interazione fra un organismo vivente e una sostanza chimica, caratterizzato da reazioni comportamentali o d’altro genere, che include sempre uno stimolo ad assumere la sostanza su basi continue o periodiche, al fine di sperimentare gli effetti psichici e talvolta  per evitare i disagi della privazione. Tale condizione viene riconosciuta come malattia cronica recidivante.
Gli operatori si trovano ad operare nei vari settori della tossicodipendenza, dai SER.T. (Servizi Territoriali Tossicodipendenti) alle C.T.T. (Comunità Terapeutiche per Tossicodipendenti). Queste a loro volta mantengono rapporti con altri servizi AUSL (Azienda Unità Sanitaria Locale), ad es. con il SIMAP (Servizio Igiene Mentale Per Adulti), nel caso in cui un utente presenti problematiche psichiatriche e di tossicodipendenza, o con i consultori e gli ospedali, soprattutto con il reparto malattie infettive, dove si curano le patologie correlate alla tossicodipendenza [HIV (sieropositività), HBV (epatite B) e HCV (epatite C) che può portare, se associato all’alcooldipendenza, alla cirrosi epatica].
Tali rapporti sussistono anche con i gruppi appartamento, con i pazienti malati di AIDS conclamato, ma anche con il carcere, sia per la somministrazione di farmaci (ricordiamo farmaci agonisti e/o antagonisti dell’eroina quali il metadone, il subite e l’antaxone), sia per interventi socio- riabilitativi in itinere, sia per programmi domiciliari nei casi in cui l’utente si trovi agli arresti domiciliari.
I Centri d’ Informazione e Consulenza nelle scuole (C.I.C.) sono competenti nella prevenzione primaria, mentre per la prevenzione secondaria e terziaria è necessario fare riferimento al SER.T. e alle comunità terapeutiche che svolgono attività di cura e riabilitazione. In tutti i tipi d’interventi devono comunque essere attivate risposte per la  cura nella sua unitarietà fisica, psicologica e sociale. In quest’ultimo campo è necessario attivare interventi di inserimento sociale e lavorativo con l’ausilio di programmi specifici.
I settori in cui un educatore opera in collaborazione con pedagogisti, psicologi e assistenti sociali presentano caratteristiche differenti fra loro.
Innanzitutto andiamo a definire le attività svolte in campo preventivo. In questo caso l’educatore fornisce risposte a problematiche legate alla tossicodipendenza  in soggetti di età compresa fra i 13 e i 14 anni, perché usiamo definire “l’età d’iniziazione”, ma si occupa anche di prevenire le problematiche ad essa legate. Intendo riferirmi ai rapporti con la famiglia, con l’ambiente in cui vive, col gruppo dei pari, degli amici, con fratelli o altri familiari legati in qualche modo a fenomeni  di devianza e di delinquenza, nonché di tossicodipendenza. E’inoltre necessario che l’educatore sia in grado di fornire  misure preventive di comportamento sessuale, come ad esempio, illustrare l’utilità del preservativo, e di mettere a conoscenza i soggetti interessati dei rischi che si corrono venendo a contatto con la droga, o meglio con i diversi tipi di droghe, e della pericolosità nel trovarsi alla guida di un  veicolo in condizioni psicofisiche non ottimali.
Differente è la situazione che si riscontra mentre si opera all’interno delle comunità terapeutiche . In questo caso l’operatore ha la funzione di essere presente con gli utenti nella quotidianità, con la consapevolezza che ogni cosa venga detta  potrà influenzare l’utente in modo determinante, proprio in una fase in cui si sta cercando di fargli apprendere le fondamentali regole di vita. L’educatore dovrà quindi stimolare la sua creatività, cercando il significato di vita dell’utente, ma sarà anche chiamato a risolvere altri problemi, come l’inserimento nell’ambito lavorativo e l’ottenimento delle borse-lavoro.
Si dovrà occupare anche della progettazione di laboratori (ad es. lavorazione del vetro e della ceramica) e di seguire gli utenti in area giudiziaria (in condizione di arresto domiciliare, ma anche all’interno delle stesse case di detenzione, con lo svolgimento di programmi alternativi, sulla base degli art. 75 e 121 DPR 309/90, che riguardano le persone che spacciano, usano e detengono sostanze stupefacenti e sono mandati al SER.T. per stipulare programmi alternativi al carcere).
Ma l’educatore dispone anche di altri strumenti atti a svolgere la propria opera , tra i quali il counseling. Con questo termine ci si può riferire a quell’area applicativa della psicologia clinica di base, dove l’utente ha degli incontri con l’educatore per la risoluzione di un problema psicologico d’estensione limitata. In questo ambito il counseling è utilizzato come metodo per definire il problema dell’utente , per ottenere informazioni sulla sua storia e progettare, in un lavoro d’equipè, una serie di interventi socio-riabilitativi.
Questo metodo è diffuso da qualche anno ed è largamente utilizzato nei servizi per la tossicodipendenza, dove io stessa ho avuto modo di costatarne il funzionamento durante un periodo di tirocinio nel SER.T. del Distretto Est del Poliambulatorio Carpaccio di Bologna.
In questo mio lavoro intendo trattare proprio dello strumento in questione, all’interno della relazione tra educatore e utente tossicodipendente.
Mi occuperò nella prima parte dell’utilità del counseling nella soluzione di problemi di tossicodipendenza e dell’esistenza di altri metodi relativi allo stesso obiettivo. In seguito tratterò dell’applicazione della teoria alla risoluzione del problema della tossicodipendenza, ma anche della fenomenologia legata ai vari tipi di droghe e ai disagi psicofisici risultanti dal loro uso. Farò inoltre riferimento ai comportamenti  tenuti nelle discoteche e dei rischi che si corrono guidando un veicolo dopo aver fatto uso di stupefacenti.
Infine riporterò un esperienza di counseling all’interno di una scuola superiore , l’IPSIA A. Pacinotti di Foggia, consistita in un approccio di prevenzione primaria. Durante la relazione introdurrò riferimenti che spiegheranno le varie fasi teoriche in precedenza citate.
Infine trarrò le mie conclusioni.



























Ai miei genitori e ai miei nonni:
vivere la vita è bello
a volte impossibile con ostacoli e avversità.
































































Prima parte
Utilità del counseling e sue metodologie



























1- COS’È IL COUNSELING



1.1- INTRODUZIONE AL COUNSELING


Nella letteratura inglese la parola “counseling” deriva dal verbo “to counsel” che significa consigliare. Quindi il termine italiano che più si avvicina a quello di counseling è consultazione.
Il counseling è una relazione d’aiuto basato sul dialogo e può essere individuale o di gruppo. Può essere inteso anche come quell’area applicativa della psicologia clinica di base in cui l’utente ha degli incontri con l’operatore o con l’educatore  per la soluzione di un problema psicologico di estensione limitata. Come ho già accennato in precedenza, in quest’ ambito il counseling è utilizzato come metodo per definire il problema dell’utente, per ottenere informazioni sulla sua storia e per progettare, insieme all’èqipe, una serie di interventi socio-riabilitativi. Questo metodo, largamente diffuso da qualche anno, è utilizzato anche nei servizi rivolti alla tossicodipendenza.
Ci sono tre sistemi che interagiscono nella persona:

• gli affetti
• i pensieri
• i comportamenti


Molti counselor differiscono sulle modalità di orientamento e nasce cosi una controversia  su due punti fondamentali, precisamente sulla stabilità di cambiamento e sulla non sincronia dei tre sistemi.

• Stabilità di cambiamento: avendo come obiettivo la modificazione di un comportamento, un affetto o un pensiero dell’utente, in conformità a tale principio occorre intervenire sui tre sistemi per dare stabilità al cambiamento in questione.

• Non sincronia dei tre sistemi: si riferisce all’utente che non sempre riesce a modificare contemporaneamente un pensiero, un affetto e il relativo comportamento.

Per quanto riguarda la modalità d’orientamento, le ricerche dimostrano che non ci sono approcci più efficaci di altri, quindi i counselor cercano di capire quale approccio e quale figura (psicologo, educatore professionale, assistente sociale, pedagogista, etc) sia più indicata per risolvere un problema di un certo tipo.
Il tipo di counseling che un counselor utilizza è scelto in base alla scuola di pensiero a cui egli stesso si avvicina. Quella che io ho scelto è la terapia centrata sulla persona non direttiva di Carl Rogers, di cui fornirò ora solo i tratti essenziali per poi parlarne approfonditamente in seguito.
1.2 – La terapia centrata sulla persona

Ideata da Carl Rogers (Chicago, 1902 – La Jolla California, 1987), psicologo umanista statunitense, propose una terapia centrata sul cliente, detta anche non direttiva. Egli volle affermare che il counseling non è diretto dall’operatore, bensì dal cliente stesso, che determina le questioni e risolve i suoi problemi.
Rogers sostiene che il cliente ha una profonda auto-conoscenza e può modificare il concetto di sé stesso. La persona che affronta una lotta per giungere all’autorealizzazione trova cosi aiuto attraverso il counseling, un sostegno incondizionatamente positivo, calore, autenticità ed empatia.
Questo approccio prende in considerazione soprattutto gli affetti, ponendo l’accento sui sentimenti che aiutano il cliente ad accettare più serenamente le esperienze della vita.





































2- Principali tipi di counseling



2.1-Pluralità di counseling

Gli approcci di counseling universalmente conosciuti sono 11:

• Counseling centrato sulla persona (già trattato in precedenza);
• Counseling basato sul comportamentismo;
• Counseling cognitivo e cognitivo-comportamentale;
• Counseling gestaltico;
• Counseling basato sull’analisi transazionale;
• Counseling psicoanalitico;
• Counseling esistenziale;
• Counseling della famiglia;
• Counseling sistemico;
• Counseling di gruppo.



2.2-Counseling basato sul comportamentismo

Ha come oggetto il comportamento che si deve modificare (ad es. smettere di fumare o superare gli stati ansiosi). I comportamentismi porgono attenzione ai rinforzi che provengono dall’ambiente sociale in cui vive il cliente, facendogli capire che da questo deve estrapolare le qualità positive per guadagnare stima.

2.3- Counseling Cognitivo e Cognitivo- Comportamentale

Ultimo movimento sorto nell’ambito della professione del counseling. I suoi esponenti derivano dal comportamentismo e ne condividono la necessità di applicar la ricerca alla pratica, quindi di fare ricerca.
I counselor affermano che la causa dei sentimenti dolorosi e dei pensieri dannosi sono pensieri inappropriati. Ellis pone come obiettivo terapeutico le credenze irrazionali non supportate da prove empiriche, mentre Beck sostiene che una tendenza ad ingigantire i problemi e un ragionamento illogico possono causare una depressione.

2.4- Counseling dell’apprendimento sociale

I counselor prestano attenzione alle aspettative dell’utente sulla base delle sue esperienze sociali ma non sempre intervengono sulle credenze, anzi, modificano le sue aspettative operando su performance concrete che inducono ad affrontare situazioni differenti per ordine e grado, in modo da modificare i suoi comportamenti in situazioni che precedentemente erano causa di stati ansiosi.


2.5- counseling gestaltico

I gestaltici considerano i movimenti del corpo come un vero e proprio metodo per sperimentare i propri sentimenti e facilitare cosi lo sviluppo dei processi di crescita psicologici.
Come i rogesiani, i gestaltici sono molto attenti ai sentimenti degli utenti in un determinato luogo e momento, evitando cosi ogni forma di analisi intellettuale dei problemi.
A questo approccio è legato Fritz Perls (1971). Egli induceva nei suoi utenti un forte senso di frustrazione, per spingerli a trovare in sé stessi la forza di reagire.

2.6- Counseling basato sull’analisi transazionale

Secondo gli analisti transazionali in ogni individuo coesistono tre parti:

1- il genitore, che ci dice cosa è giusto;
2- 2- l’adulto, che prende decisioni e verifica la realtà;
3- Il bambino, che gioca e ha dei bisogni.

Essi affermano che queste tre parti entrano in conflitto fra loro, spiegando cosi le difficoltà intrapsichiche e interpersonali. Il compito del counselor è quello di aiutare l’utente a raggiungere l’equilibrio, dando una leggera preferenza alla parte adulta che prende decisioni. Il cliente in cui prevale il bambino avrà difficoltà a vivere una vita responsabile, mentre quello in cui prevale il genitore avrà difficoltà ad apprezzare la vita.

2.7- Counseling psicoanalitico

Sigmund Freud ha posto le fondamenta da cui poi sono sorti tutti i successivi approcci. La sua concezione dell’inconscio e dello sviluppo della personalità ha dato origine ad ingegnose tecniche di counseling.
Il counselor psicoanalitico lavora soprattutto cercando di rendere conscio il materiale inconscio, facendo quindi un’opera di insight, che coinvolge sé stesso e il cliente nei meccanismi di adattamento psicologico di entrambi. Questo provoca molta ansia nel cliente, che mette in atto meccanismi di difesa per impedire l’autoconsapevolezza.
Più di molti altri i counseling psicoanalitici ricreano la situazione bambino/genitore. Infatti con il transfert l’utente trasferisce i suoi sentimenti al counselor e, nel momento in cui il fenomeno viene alla luce, l’utente riesce a comprendere i processi psicologici sottostanti e a modificare i sintomi che lo disturbavano.

2.8- Counseling esistenziale

I counselor esaminano il ruolo dei problemi filosofici nella vita psicologica degli individui, preferendo cosi far operare sui temi della vita e della morte.
Essi studiano le persone in termini di essere (una consapevolezza di sé) e non essere (una perdita d’identità spesso causata  dal conformismo). Sostengono che la coscienza e l’insight vengono dopo il cambiamento e il comportamento, non viceversa.
L’obiettivo del counselor è quello di rendere consapevole l’utente delle sue qualità nascoste.

2.9 – Counseling della famiglia e counseling sistemico

Sono entrambi molto recenti e si basano sull’influenza che i sistemi sociali hanno sull’individuo.
I counselor di famiglia cercano di comprendere i metodi con cui i vari membri della famiglia comunicano fra loro, mantengono la struttura familiare e aiutano o impediscono la crescita dei singoli individui.
I sistemici si interessano invece della psicolinguistica, cioè di come il linguaggio influenza ciò che pensiamo, facciamo e sentiamo.

2.10- Counseling di gruppo

Fa riferimento ad un qualsiasi approccio finora descritto. Se è possibile creare dei gruppi di individui con problemi relativamente simili, la terapia è più efficace. Infatti, nei gruppi i progressi derivano dall’interazione tra i membri e non dal lavoro del counselor di per sé.
In questi gruppi il counselor ha un ruolo di stimolatore e interviene per dare delle regole e facilitare alcuni cambiamenti emotivi. Fornisce un forte supportoe interpreta i processi che intercorrono nel gruppo.






























3- Panoramica metodologica del counseling



3.1- Due metodologie differenti

Prima di addentrarci nella parte metodologica del counseling è necessario sottolineare che esistono due modi fondamentali di operare.
Distinguiamo, infatti, la presenza di due metodi radicalmente opposti:

• Metodo direttivo
• Metodo non direttivo

Svilupperò in maniera più estesa il secondo metodo , quello a cui fa anche riferimento Rogers, essendo quello che ho scelto  per la stesura di questa tesi di laurea e per la realizzazione della mia ricerca all’interno di una scuola superiore, cosa che avrò modo di dettagliare in seguito.


3.2- il metodo direttivo

E’ l’operatore a definire il taglio del colloquio sin dall’inizio, facendo capire di essere già in possesso d’informazioni sul suo conto. Sarà proprio per mezzo delle domande che emergeranno e dalle risposte che verranno sviluppate, nonchè dai risultati dei test, che si cercherà di definire il tipo e l’entità del  problema.
Una volta realizzato tale obiettivo si potrà passare ad una fase successiva, nella quale è sempre l’operatore ad indicare l’argomento, lasciando comunque all’utente lo sviluppo dello stesso. L’operatore passerà cosi alla verifica dei test e potrà individuare il problema, la fonte delle difficoltà e il comportamento che si desidera correggere.
In seguito, durante il colloquio, sarà compito dell’operatore focalizzare alcuni punti chiave e di fare domande che esigono una risposta chiusa (viene richiesta una conferma o una negazione, oppure la presenza di particolari specifici d’informazione). Su tali punti si potrà tornare in seguito in caso di necessità.
Nella costruzione del rapporto egli esprimerà approvazione, disapprovazione, sorpresa nei confronti del cliente e solo in seguito arriverà a spiegargli l’origine del problema e a discutere con lui le diverse modalità per risolverlo. Sarà questo il momento in cui potranno essere fornite delle direttive o dei modelli d’azione, ma non di risoluzione, avvalendosi di domande specifiche o rispondendo a specifiche richieste.
Giunti a questo punto l’operatore potrà valutare realmente il problema, esprimendo cosi un giudizio scientifico e persuadendo l’utente rassicurandolo sulla riuscita finale.

3.3- fondamenti del metodo non direttivo

In questo caso l’operatore attribuisce al cliente la responsabilità della direzione dell’intero counseling, come anche quella delle decisioni da prendere. A questo punto il counselor entra in contatto con il cliente, ma ma questo non comporta la nascita immediata  di una relazione intensa fra i due soggetti; il contatto deve essere delicato, rispettare l’eventuale paura del cliente verso òl’intimità e il contatto personale. Si lascia quindi al cliente la libertà di definire il problema e di esprimere i suoi sentimenti.
In un secondo momento l’operatore fa capire all’utente di avere riconosciuto il problema, fa domande aperte o chiuse, invitando cosi a riflettere  e stimolandolo al dialogo. Quando l’operatore si rende conto dei cambiamenti, e percepisce cosi che il cliente è vicino alla soluzione, gli attribuisce tale merito, evidenziandogli il fatto che dovrà anche decidere quale sia la decisione da prendere a riguardo.
Superata questa fase, sarà il counselor a manifestare approvazione per la decisione presa dal cliente.
Quando si svolge un counseling non direttivo è importante che l’operatore segua alcune regole di base:

• Deve ascoltare in maniera paziente e amichevole il cliente, ma allo stesso tempo non deve rinunciare alla critica;
• Non deve mai mostrarsi autoritario;
• Non deve dare consigli o ammonizioni morali;
• Non deve polemizzare con il cliente.

Quindi un atteggiamento estremamente disponibile e per certi versi accondiscendente, ma che non può esimersi dal porre domande e dall’effettuare critiche. Questo può avvenire però solo a certe condizioni e per determinati scopi:

• Per aiutare la persona a parlare;
• Per contribuire a ridimensionare paure e angosce che potrebbero influenzare negativamente il rapporto con l’operatore;
• Per congratularsi con la persona che è riuscita ad esprimere i suoi sentimenti e i suoi pensieri con precisione;
• Per indirizzare la discussione su un argomento che è stato omesso o trascurato;
• Per discutere supposizioni implicite.

Il counseling non direttivo pone in primo piano non tanto il problema, quanto il soggetto stesso. Tale metodo si basa sull’assunto che il soggetto abbia diritto di scegliere gli obiettivi da raggiungere nella propria vita, di essere psicologicamente indipendente e di mantenere la sua integrità psicologica.
Prima di proseguire andiamo a definire il termine inglese “insight” letteralmente “vedere dentro”. Si vuole intendere la soluzione di un problema da tempo incubato, una soluzione che nasce da un’idea improvvisa, vissuta come forma di esperienza interiore  che permette di rivisualizzare l’intera situazione nella sua globalità, giungendo cosi in breve tempo alla soluzione cercata.
La caratteristica sopracitata si rivela un elemento estremamente positivo, in quanto porterà con maggiore facilità a fare scelte giuste. E’ prerogativa del counseling quella di accrescere il grado di insight, in modo da rendere il cliente sempre più capace di far fronte ai problemi e di risolverli in maniera autonoma.
Questo tipo di counseling è applicabile alla maggior parte degli individui che hanno la capacità di giungere a soluzioni relativamente adeguate alle difficoltà riscontrate.


4- Rogers e il metodo non direttivo



4.1- Carl Rogers e la terapia centrata sulla persona

Carl Rogers (Chicago, 1902-La Jolla, California, 1987), assieme a Rollo May e Maslow fu tra i primi che maggiormente contribuirono a fondare e diffondere la psicologia umanistica. Essa pone l’accento sul carattere d’irriducibilità del soggetto, le cui motivazioni all’azione non si possono ricondurre immediatamente alle pulsioni sottostanti, ma sono generate da valenze non quantificabili. Ci si riferisce in particolare alla visione del mondo in cui si esprime la propria identità, alla qualità di relazione con gli altri e soprattutto all’autorealizzazione. La psicologia umanistica ritiene che “la conoscenza delle proprie motivazioni, che sono note solo al soggetto ne che non possono essere inferite dalle prestazioni, consenta a ciascuno di evitare l’autoinganno e di giungere cosi alla conoscenza del proprio Sé, al di là delle maschere che ciascuno è costretto ad adottare nel momento pubblico della sua esistenza”.
Sul piano terapeutico la psicologia umanistica non esclude le varie tecniche e metodologie, in quanto accoglie metodi come l’integrazione di gruppo e quelle relazionale con molti motivi di fusione con la psicoterapia rogersiana. Il pensiero fenomenologico esistenziale, nato in Europa, viene recepito negli Stati Uniti dalla corrente della psicologia umanistica, detta terza forza, rispetto alla psicoanalisi ed al behaviorismo (ritenute la prima e la seconda forza della psicologia).
Rogers prende distanza dal pensiero freudiano: considera la salute mentale come la progressione normale della vita e la malattia mentale come una forma di distorsione  della “tendenza attualizzante” e rifiuta esplicitamente i concetti di transfert e di interpretazione, che giudica difese dell’operatore, e il dualismo istintuale tra pulsioni di vita e di morte. La sua teoria della personalità si basa sull’assunto che “ogni individuo vive in un mondo di esperienze di cui è il centro”. Il soggetto cerca all’interno del suo campo percettivo la soddisfazione dei propri bisogni. La struttura del Sé trae origine dall’interazione del soggetto col mondo. Questo porta ad essere in accordo o in disaccordo con la sua tendenza ad attualizzarsi secondo le proprie valutazioni che non sempre corrispondono a quelle degli altri. L’individuo è tanto più sano quanto più il suo sé si rivela in grado di sostituire  il suo sistema di valori con valutazioni e rivalutazioni, in base alla quantità e alla qualità delle esperienze vissute. Da questo orientamento teorico trae origine la terapia proposta da Rogers che chiamò terapia centrata sul cliente o sulla persona, detta anche non direttiva. Egli volle affermare che il counseling non è diretto dall’operatore bensì dal cliente stesso, che determina le questioni e risolve i suoi problemi. Egli usa il sostantivo “cliente” al posto di “paziente o utente”, al fine di sottolineare il suo stato di “non malattia”.
Rogers sostiene che il cliente ha una profonda auto- conoscenza e può modificare il concetto di se stesso attraverso lo sviluppo delle esperienze vissute, con modificazioni di quegli aspetti alterati e con integrazione di quelli ignorati perché incompatibili con il proprio Sé. Lo scopo è quello, infatti, non è quello di aiutare il cliente a risolvere il problema, ma quello di incentivare lo sviluppo di capacità innate di autoregolazione  e di autorealizzazione. La persona che intraprende una lotta per perseguire l’autorealizzazione trova cosi aiuto attraverso il counseling, un sostegno incondizionatamente positivo, in grado di fornire calore, autenticità ed empatia. L’operatore deve favorire la libera espressione dell’emotività del cliente ì, sostenendolo, senza influenzarlo, nell’autonomo processo di comprensione della propria realtà psichica. Questo approccio prende in considerazione soprattutto gli affetti, ponendo l’accento sui sentimenti che aiutano il cliente ad accettare più serenamente le esperienze della vita. Come già affermato in precedenza, l’intero processo fonda le proprie radici sulla necessità di considerare in modo ottimistico la possibilità di giungere ad un ‘autorealizzazione, considerata l’unica fonte energetica del comportamento dell’uomo.

4.2- necessità dell’empatia

Abbiamo affermato che la caratteristica di questo tipo di counseling è la libera espressione di sentimenti. L’utente, infatti, mette in contatto l’operatore con le proprie emozioni non implicando il suo diretto coinvolgimento, permettendogli cosi di acquisire una molteplicità di informazioni relative alle proprie esperienze emozionali. Quando l’utente è pronto ad esprimere queste emozioni significa anche che è pronto ad elaborarle a vedere le varie possibilità di viverle in modo diverso e di renderle ricche e produttive sul piano esistenziale. Il cliente durante il counseling, parla di sé stesso e dei suoi problemi, esprimendo i suoi sentimenti senza trincerarsi dietro atteggiamenti difensivi. Compito dell’operatore è quello di essere attento a cogliere i sentimenti dell’utente per cercare di cambiarli. Il counselor, potrebbe toccare tutti gli argomenti per vedere su quali l’utente è più sensibile, ma questo processo potrebbe però essere troppo lungo e rischierebbe di creare notevoli impedimenti alla corretta prosecuzione del counseling. Si rischierebbe infatti di mettere in luce un problema che il cliente non desidera esternare in quel determinato momento. Questo elemento potrebbe cosi portare il cliente a chiudersi in se stesso ed è chiaramente cosa da evitare; è per questo che è assolutamente importante la sua collaborazione.
Alla luce di ciò, le tecniche più efficaci di counseling sono quelle che incoraggiano il soggetto ad esprimersi il più liberamente possibile.
L’utente arriva sempre al SER.T. o in C.T.T. con una molteplicità di problemi correlati alla tossicodipendenza è portato a parlare di sé, mentre l’operatore ascolta la sua storia.
A proposito della storia, Hurssel sostiene: “…la storia è un momento della comprensione di sé stessi , in quanto cooperiamo al suo determinarsi.”. Durante la narrazione l’operatore si mostra interessato e cerca empaticamente di provare le stesse emozioni  del cliente e di rispettare i suoi silenzi. Il counselor fa quindi domande inerenti il problema, al fine di delineare la giusta direzione e mettere l’utente in condizione  di essere cosciente della reale dimensione del fatto, consentendogli cosi di farlo giungere autonomamente ad una soluzione.
Secondo il metodo non direttivo di Rogers, l’educatore nel promuovere il processo di modificazione della personalità dell’utente si affida non tanto a tecniche interpretative quanto all’empatia, concetto cardine dell’intero impianto rogersiano.
L’empatia (da empateia, passione), “mettersi nei panni di…”è intesa come la comprensione dell’altro, risultato che si realizza immergendosi nella sua soggettività, senza sconfinare nell’identificazione.
P. Bertolini in fenomenologia e pedagogia (1958), lo definisce come un autentico modo di entrare in relazione con l’altro, una condizione dello spirito che Hurssel indica col termine einfühlung, entropatia, un atteggiamento spirituale che permette di penetrare nell’intima esperienza altrui, non un inserirsi intellettuale, ma un modo simpatetico di con-sentire con l’altro, cosa che richiede anche un impegno personale, perché si tratta per ogniuno di saper vedere nell’altro ciò che sarebbe egli stesso se si trovasse al suo posto.
L’operatore è capace di accettazione positiva incondizionata verso l’utente nella misura in cui sente di accettarne ogni aspetto, ogni sentimento, espresso o non espresso, sia negativo che positivo. Inoltre, se è presente la sospensione di giudizio, la epochè, l’operatore potrà avere una comprensione empatica e/o enteropatica di quanto il paziente sente a livello cosciente.
Rogers sottolinea il fatto che l’operatore può sentire il mondo dell’altro come se,  fosse proprio, senza perdere mai di vista la qualità del “come se”, riuscendo a sentire l’ira, la paura, l’odio, il turbamento dell’altro senza aggiunte proiettive. Non direttività significa rispetto dell’altro, della libertà e dell’autodeterminazione del cliente e allo stesso tempo un’autoeducazione continua dell’operatore, che è in continua crescita, seppur dolorosa e arricchente.
All’interno della relazione diadica l’utente deve sentirsi compreso nella sua totalità, deve raggiungere quello stato che Cartesio chiamava cogito ergo sum, penso dunque sono, perché l’utente deve s’ricominciare da sé stesso, rispettarsi, imparare a volersi bene. La terapia è intesa come un incontro fra due esseri umani in crescita e la lezione di umiltà che arriva da Rogers è sempre valida, perché ci ricorda la necessità di calarsi ogni volta nella relazione, sapendo che ne usciremo trasformati, avendo chiara la relatività delle nostre convinzioni.
I suoi gruppi d’incontro, training group, erano esperienze intensive che partivano dalla chiara intuizione, ancora attuale, che la gente sia consapevole della propria solitudine interiore, condizione dovuta alle molteplici maschere indossate per sopravvivere in una realtà complessa. I gruppi d’incontro sono ottime occasioni , per iniziare a gettare le maschere e cercare cosi momenti di autenticità, riconoscendo l’essenza che accomuna l’umanità.
A tale obiettivo mira il metodo rogersiano.

4.3- Sviluppo del metodo

Abbiamo visto come lo scopo dell’operatore e dell’utente sia dato dal cambiamento dei tre sistemi (affetti, pensieri e comportamenti). Abbiamo anche visto come lo scambio verbale fra i due soggetti debba essere centrato soprattutto sull’utente, il quale deve essere libero di esprimersi. Gli interventi dell’operatore devono essere pochi e mirati al cambiamento, il suo atteggiamento deve essere empatico, esprimere calore ed essere amichevole senza per questo perdere di vista la sua professionalità. Egli non deve dare consigli ma solo dirigere la comunicazione in modo da modificare il comportamento.
All’interno del counseling non direttivo avvengono comunque altri processi essenziali, al pari dello sviluppo empatico, alla buona riuscita dell’intero lavoro. Andiamo di seguito a delineare i principali elementi che li costituiscono.

4.4-La comunicazione non verbale

Nel corso di un counseling non è facile tracciare una linea netta fra ciò che è verbale e ciò che non lo è. Se da una parte possiamo accettare la definizione di comunicazione non verbale  (CNV) come uno scambio di informazioni tramite segnali diversi dalla parola, quali i gesti, l’espressione mimica, la postura, le variazioni nella distanza interpersonale (Ricci Bitti 1994), dall’altra sappiamo bene che nella stessa produzione vocale entrano in gioco componenti quali il tono, l’intensità, l’intercalare e l’uso di espressioni stereotipate che modificano in qualche modo il significato delle frasi pronunciate.
Possiamo aggiungere che, mentre la componente verbale è abbastanza controllabile dall’utente, quella non verbale, legata ad aspetti affettivi ed istintivi, e più immediata e sfugge più facilmente alle regole di controllo, veicolando con maggiore facilità le emozioni e gli stati affettivi.
E’ possibile quindi cogliere, attraverso i movimenti del corpo, del volto, delle mani e dei piedi, dell’intonazione di voce , il significato delle emozioni, degli atteggiamenti, dei conflitti consci e inconsci che il soggetto sta vivendo e che non esprime verbalmente.
Vi sono alcune funzioni che si riferiscono ad aspetti peculiari della comunicazione non verbale, come, ad esempio, quelle individuate da Ricci Bitti e Zani (1983), che riguardano la comunicazione implicita.
Andiamo a vederle dettagliatamente:

• Informativa, in riferimento ai gesti convenzionali, come ad es. avvicinare una mano alle labbra per mandare un bacio;
• Interattiva, in riferimento a quei gesti e a quegli sguardi che favoriscono l’interazione; i gesti possono aiutare la persona a comunicare e l’interlocutore a capire meglio, mentre lo sguardo può incoraggiare o imbarazzare colui che parla;
• Espressiva o comunicativa, in riferimento a quei segni che vanno dall’esteriorizzazione della propria immagine (aspetto fisico, abbigliamento, movimenti, etc.) all’inflessione dialettale;
• Referenziale, in riferimento a quelle sottolineature paralinguistiche e alle espressioni facciali che incidono sul parlato.

Per quanto concerne i contenuti espressi in modo verbale e non verbale, è importante precisare che essi possono coincidere ma anche essere in contrasto.
Intendo dire che il linguaggio non verbale può essere considerato in rapporto diretto con quello verbale, rapporto che vede sovente i contenuti espressi in contrasto fra loro.
Vi sono alcune funzioni del linguaggio verbale che possono essere considerate in rapporto a quello verbale. Andiamo ad illustrarle.

• Ripetizione e complementazione – La CNV serve a rafforzare ciò che è detto verbalmente. Può anche integrare o modificare il messaggio verbale. Ad esempio, durante una conversazione verbale riguardo ad un certo sentimento che l’utente vuole evidenziare, egli assocerà alle parole alcuni movimenti del corpo tendenti verso l’operatore
• Sostituzione- il messaggio verbale può essere sostituito da quello non verbale. Ad esempio, una persona che sta seduta con il volto fra le mani, piegata su sé stessa, può manifestare uno stato di dolore.
• Accentuazione – E’ la sottolineatura di alcune componenti del messaggio verbale. Ad es. se, durante la conversazione, l’operatore chiede all’utente di essere più preciso, la sua espressione verbale potrà essere accompagnata da gesti;
• Relazione e regolazione- Sono aspetti non verbali che servono a regolare il flusso verbale nel corso di un interazione. Ad esempio, un cenno del capo o uno sguardo che agevoli l’inizio della comunicazione;
• Contraddizione – Il messaggio non verbale può contraddire ciò che è detto verbalmente. Un esempio può essere l’accensione veloce di una sigaretta nel corso di un counseling.


Dopo aver effettuato una breve analisi delle principali funzioni della CNV, analizziamo altre modalità significative che coinvolgono sia l’operatore sia l’utente all’interno di un counseling.

• Il comportamento spaziale – Quando parliamo di comportamento spaziale ci riferiamo alla posizione di vicinanza/lontananza assunta dagli individui nello spazio. Ad es. se l’operatore assume un ruolo di dominanza l’utente eviterà di mettersi in una posizione “face to face”
E di avere uno sguardo diretto. Infatti, secondo Ekman e Friesen la postura che assume un cliente può svelare ansie e insicurezze, quindi la maggiore o minore rigidità che assume quando è a confronto con l’operatore è in grado di rivelare le tensioni e la capacità di controllo.
• Le espressioni del volto- Ci si riferisce a tutti i mutamenti del volto nel corso dell’interazione. Ad es. l’inarcamento delle sopracciglia i cambiamenti di posizione degli occhi, della bocca del naso. Un cenno a parte merita lo sguardo, che può esprimere tutto ciò che si cerca di omettere o servire per indicare di aver capito ciò che è stato espresso dall’altro. Non dobbiamo comunque dimenticare che uno sguardo troppo intenso può creare imbarazzo o disagio.
• Aspetti non verbali del parlato- Si possono riscontrare tre tipi di variazioni: le variazioni linguistiche, che comprendono la scelta della lingua (ad es. l’uso del dialetto o dell’italiano), l’uso di un linguaggio semplice o elaborato e la scelta della forma e dei tempi; le variazioni non linguistiche che comprendono il tono della voce, il modo di emettere le parole e il ritmo del discorso; infine le vocalizzazioni, nelle quali sono compresi gli stati emotivi, come nell’atto di piangere di ridere e di tossire.
•  Il silenzio- Può assumere diversi significati, come, ad es. derivare da un momento di insight e di riflessione. In proposito Pinkus (1980) afferma che si tratta di “un momento emotivo nel quale i vissuti e le problematiche  vengono sistemate, ridefinite e ristrutturate , alla ricerca di soluzioni nuove, più adeguate e persino originali”. Può anche derivare da aspetti emozionali, fantasie e sentimenti che il soggetto prova in un determinato momento e che, a causa della loro individualità, o per il fatto stesso di provare a rappresentarli, fanno sospendere al soggetto il flusso della parola.


4.5- La pragmatica della comunicazione

E’ importante sottolineare che, nonostante le differenze, le due forme di comunicazione sono accomunate da diversi elementi. Tutta la comunicazione sia verbale che non è regolata dalla pragmatica della comunicazione, cioè dagli effetti comportamentali messi in atto dagli autori della Scuola di Palo Alto, fra cui Watzlawick, la cui analisi riguarda sia l’effetto della comunicazione sul ricevente, sia l’effetto della reazione o feedback, un meccanismo di retroazione, dove si assiste a uno spontaneo adeguamento o rettifica  del proprio comportamento in relazione  alle informazioni che provengono dal comportamento altrui.
Queste elaborazioni teoriche vengono chiamate assiomi della comunicazione, cioè affermazioni basilari che servono a illustrare certe caratteristiche della comunicazione interpersonale.
Tali assiomi sono molteplici. Andiamo ad esaminarli.

• Il primo assioma – Afferma che non si può non comunicare,  cioè tutto quello che si manifesta in modo verbale o non è da considerarsi una forma di comunicazione;
• Il secondo assioma – Afferma che ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione, in modo che il secondo classifica il primo, arrivando cosi alla metacomunicazione, cioè al fatto che ogni atto comunicativo impone un comportamento.
• Il terzo assioma – Afferma che la natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione fra i comunicanti. Gli scambi comunicativi esigono quindi delle punteggiature, per capire meglio il significato e per consentire al ricevente di porre domande.
• Il quarto assioma – Specifica che gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico  che con quello analogico. Il primo si riferisce alle parole e alla loro sintassi logica, mentre il secondo alla comunicazione non verbale.
• Il quinto assioma- Afferma che tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari, a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza. Si ha un interazione simmetrica quando la comunicazione fra i due è alla pari, mentre si ha un’interazione complementare o asimmetrica quando uno dei soggetti assume una posizione superiore (one up) rispetto all’altra inferiore (one down). Gli scambi fondati sulla simmetria sono basati sul rispetto  e sul riconoscimento reciproco delle rispettive aree di competenza, mentre per quelle asimmetriche è necessario, per giungere allo stesso risultato, che venga motivato il comportamento tenuto.

4.6- I fattori ambientali

Notevole importanza nella buona riuscita di un counseling è sicuramente data dai fattori ambientali. Parliamo di setting, termine derivato dall’inglese to set (disporre, organizzare, mettere a punto). Ne distinguiamo sostanzialmente due tipi:


• Setting interno, in riferimento a tutti quegli aspetti come l’arredamento, l’odore, il rumore, tutti elementi che possono essere di disturbo alla buona riuscita di un counseling;
• Setting esterno, in riferimento al luogo fisico in cui si svolge il counseling, alla sua durata ed altre caratteristiche di strutturazione esterna.

4.7- Un incontro di counseling

Il counseling ha bisogno di alcune regole, come fissare un orario, telefonicamente o di persona per avere l’incontro. Questa viene chiamata seduta e ha una durata di 45-50 minuti, un onorario che sia aggira sulle 50-60€ a seduta, solitamente con frequenza settimanale o quindicinale e si svolge in 5-6 sedute. Queste regole sono importanti perché l’utente in questione deve aver chiari che quel tempo è dedicato a lui e che deve sfruttarlo nel migliore dei modi.
Un altro problema è se usare o meno la forma di cortesia nel corso dell’interazione. E’ meglio dare del “tu” o del “lei”?
Di solito è meglio usare il “lei”, perché non bisogna dimenticare che non si tratta di un rapporto di amicizia, anche se l’atteggiamento dell’operatore dovrà essere caloroso empatico ed amichevole. Inoltre questa scelta consente al cliente di fargli percepire una sensazione di stima e di rispetto, di conseguenza facilita l’interazione all’interno del counseling.
Un altro punto che dobbiamo definire è si può aiutare un parente o un amico? La risposta è no. Non dobbiamo infatti dimenticare che non siamo onnipotenti, che non siamo gli unici a poter dare aiuto e ricordare che si lavora in equipe. In casi di questo tipo è preferibile affidare il compito ad un collega, anche perché un iniziativa di tal genere è vietata dal codice deontologico (grazie all’norme lavoro compiuto da Rosy Grespan dell’ANEP Associazione Nazionale Educatori Professionali). Questo è motivato dal fatto che è necessario conservare una certa dose di lucidità per svolgere al meglio il proprio compito, condizione non facilmente raggiungibile durante un interazione con una persona emotivamente troppo vicina a noi.
Dopo ogni seduta è bene prendere appunti sui contenuti principali emersi , sugli interventi sostanziali e sulle reazioni dell’utente, sugli obiettivi, sugli interventi che si ritengono ancora necessarie e sulle aspettative.
In genere viene data agli operatori una  cartella socio-sanitaria per ogni utente per registrare tutta la situazione storica sia in campo medico dove sono riportati tutti gli esami emato-chimici e il vaccino contro l’epatite B svolti dagli infermieri professionali; le terapie sostitutive o i psicofarmaci prescritti da medici e psichiatri; e l’anamnesi psico-socio- educativa dell’utente per avere un monitoraggio continuo su tutti i cambiamenti dell’utente.
Documentare il lavoro è importante, anche perché ci aiuta sempre più a capire l’utente  e ci consente di poterne parlare alle riunioni d’equipe senza tralasciare nulla. Oggi con il consenso dell’utente si può anche registrare fono logicamente il counseling in modo tale da avere più chiara la conversazione e documentarla cosi con ricchezza di particolari.
Ogni volta che affrontiamo un counseling dobbiamo pensare che le informazioni in nostro possesso sono protette dalla legge sulla privacy, quindi non possono essere divulgate, neanche se si tratta di familiari dell’utente, soprattutto se maggiorenne.


Dobbiamo anche precisare che l’operatore potrebbe essere condizionato da qualche forma di pregiudizio nei confronti del cliente, ma questa è una condizione che andrebbe ad invalidare i risultati dell’intero counseling. E’ indispensabile liberare la mente, aprirla a 36°, se si vuole sviluppare un rapporto di empatia con l’utente.
L’operatore è inoltre tenuto a non sottovalutare nessun aspetto della relazione anche se li giudica irrilevanti, potrebbero invece essere fondamentali per il cliente. Non deve quindi commettere un errore di superficialità.
E’ necessario guardarsi anche dalle proiezioni difatti esse distorcono la realtà che stiamo osservando, perché attribuiamo a contesti culturalmente diversi dei significati che appartengono invece al nostro paradigma culturale.
Inoltre non bisogna avere aspettative, in quanto potrebbero essere potentissime nel deformare la realtà e portare , nel caso in cui il counseling non soddisfi le aspettative di entrambi, a una forte delusione nell’utente per non aver risolto il problema.
Altro elemento essenziale nello sviluppo del counseling è rappresentato dal punto di vista dell’operatore, che determina una visione delle cose a seconda del ruolo che si assume, dalla propria sensibilità  e dalle conoscenze acquisite. L’osservazione è uno strumento mentale e come diceva Galileo, ciò che osserviamo dipende dal nostro atteggiamento mentale.
Il rischio che corre un operatore è quello di risentire della sindrome  del burn out, un fenomeno multidimensionale in cui interagiscono fattori socioambientali (concernenti aspetti fisici e  organizzativi del luogo di lavoro) e variabili individuali (riferibili a caratteristiche motivazionali e a tratti della personalità).
I primi fanno riferimento alle funzioni di ruolo, cioè alle tensioni e al sovraccarico di lavoro, mentre i secondi riguardano le caratteristiche del compito lavorativo, cioè la mancanza di feedback nel lavoro svolto da parte di colleghi e /o utenti.
Ogni operatore risponde in modo differente alle situazioni stressanti che questa sindrome comporta, in rapporto alle caratteristiche della personalità e agli stili di vita acquisiti.
Ma in campo medico e sociale come si proteggono gli operatori da eventuali malattie correlate alla tossicodipendenza? E quale atteggiamento devono avere nei confronti degli utenti? Gli operatori, sia in campo medico che sociale, si proteggono facendo uno screenning periodico e vaccinandosi contro l’epatite B, in questo caso non sempre il vaccino attecchisce, se non attecchisce il motivo è che abbiamo già gli anticorpi che ci proteggono da tale malattia. Purtroppo non esistono ancora i vaccini contro l’epatite C e l’HIV. L’atteggiamento nei confronti dei tossicodipendenti non deve essere assolutamente discriminante, perché le malattie infettive non si trasmettono per via aerea o con il tatto, ma solo tramite le mucose e il sangue.


4.8- Il counseling con l’adolescente

Il counseling con l’adolescente rileva soprattutto l’importanza, l’unicità e la dignità umana. Il rapporto interpersonale improntato all’accettazione dell’operatore consente all’utente di rinunciare gradualmente alle proprie difese e di sperimentare sentimenti e atteggiamenti di cui prima non riusciva a rendersene conto e che non riusciva ad accettare come parte di sé.
Importante per l’operatore è cercare di individuare il punto di vista del cliente, guardando anche l’aspetto sano della sua personalità, osservandolo con uno sguardo positivo, privo di pregiudizio. Dovrà quindi essere pronto ad accettare anche sistemi di valori diversi dal proprio.
Un’idea di fondo necessaria è quella di riuscire ad entrare in contatto con il mondo del ragazzo e con il suo modo di vedere le cose, senza lasciarsi fuorviare da pre- rappresentazioni ideologiche e teoriche, comunque frutto della posizione propria del suo ruolo.
Dobbiamo assolutamente tenere presente che il modo di vedere di un adulto è molto diverso da quello adolescenziale ed è proprio per questo che ci sono spesso conflitti in famiglia e/o a scuola con gli insegnanti. Quindi siamo noi che dobbiamo trovare gli strumenti necessari ad entrare empaticamente nel mondo dell’adolescente, non essendo possibile il contrario.
Il counseling non direttivo non interpreta o analizza i problemi, ma ottiene i risultati attraverso l’atteggiamento dell’operatore che, mettendo in atto nella relazione una funzione affettiva e mentale di sostanziale accettazione, aiuta l’adolescente ad assumere lo stesso atteggiamento anche nei confronti di sé stesso. Mostrare di accettarsi in modo positivo, senza pregiudizi, crea nell’utente un desiderio d’imitazione e questo costituisce il principale strumento d’intervento, al di là di ogni analisi più o meno sofisticata del problema presentato.
Per questo motivo l’operatore non provoca, non sfida, non mostra incongruenze all’adolescente nel suo modo d’essere e di ragionare; semplicemente ascolta, rimanda e usa l’empatia, con l’obiettivo di aiutare l’adolescente a trovare il proprio sé. L’unica cosa che si chiede all’adolescente è il coraggio d’essere e stesso e di accettarsi.
Questo punto di vista pur essendo valido in senso lato, è importante soprattutto nel counseling verso adolescenti, in quanto sostiene il bisogno di individuarsi e di differenziare l’immagine di sé da quella proposta degli adulti, genitori o insegnanti che siano. I seguaci di questa scuola ritengono che il cliente debba essere l’unica persona ad avere diritto di determinare il proprio futuro.
Le principali dimensioni del disagio riguardano lo stress (tensione, insonnia, senso di inadeguatezza) la depressione (senso di vuoto e di inutilità, tristezza), la demotivazione (indecisione, mancanza di concentrazione e motivazione ad agire). Stress e depressione sono tendenzialmente legati ad eventi di carattere traumatico, come, ad es. gravi malattie o di persone care oppure problemi d’alcool o droga in famiglia. E’ importante sottolineare come gli adolescenti stressati o depressi presentino una maggiore tendenza a fare uso di farmaci rispetto a coloro che dichiarano invece problemi di demotivazione.
La tristezza, il pessimismo, l’umore cupo, un senso d’inutilità e vuoto, la mancanza d’interessi sono tutte manifestazioni emotive e comportamentali che accompagnano la depressione. Alcune situazioni possono portare ad un rischio di suicidio, fra queste anche i momenti conclusivi della scuola, quando un risultato negativo può essere dovuto al sentimento di delusione che i genitori mostrano all’adolescente. Lo sviluppo di una situazione di questo tipo trova un terreno maggiormente fertile nelle famiglie in cui essi mettono in competizione con fratelli e sorelle il soggetto interessato. La sensazione di vuoto e di solitudine può essere chiaramente accentuata dalla perdita, in seguito alla bocciatura, dei propri compagni di classe.
Comunque il caso appena esposto non è certamente l’unico fattore che può spingere un adolescente al suicidio. Vi sono altri elementi che aumentano tale rischio, come ad es. l’uso di droghe, la presenza di fantasie di morte, la mancanza di una rete di supporto. Difficilmente però situazioni emotive di questo genere passano inosservate ad un occhio sensibile ed esperto. A scuola segnali preoccupanti possono essere rappresentati da: cambiamenti d’umore, da passaggi repentini da uno stato di depressione a uno di euforia e non necessariamente il contrario, oltre ad un calo evidente di rendimento.


























SECONDA PARTE
LA TOSSICODIPENDENZA
























5- Tipologie delle droghe


5.1- Cosa s’intende per droga?

Cosa s’intende per droga? Mille volte ci siamo posti questa domanda senza sapere cosa rispondere, anche perché non è mai stato chiarito in modo definitivo.
Il termine droga sembra derivare dall’olandese “droog” (secco, cosa secca), termine col quale si indicano anche sostanze aromatiche quali: il pepe, il garofano, la noce moscata, etc.
In ambito farmacologico ci si riferisce ad ogni prodotto naturale, vegetale o animale uno o più principi attivi come ad es. gli alcaloidi e i glucosidi.
In ambito medico si fa riferimento ad ogni sostanza chimica, sintetica o estratta da piante o tessuti animali, usata sia come medicina, sia per la prevenzione di malattie.
In ambito psicologico vengono classificate come droghe tutte quelle sostanze chimiche, naturali o sintetiche capaci di modificare l’umore, la percezione e l’attività mentale nel suo insieme. Fra esse sono comprese sostanze come L’alcool, il tabacco, il the, i barbiturici, l’oppio e i suoi derivati.
Col termine “narcotico” si indica invece quell’insieme di sostanze in grado di indurre narcosi o anestesia, quindi fenomeni di riduzione o abolizione dello stato di coscienza, di perdita della sensibilità e rilassamento muscolare. Esempi di narcotici sono dati dall’etere e dal cloroformio.
Con il termine “stupefacente” si fa riferimento al fatto che l’uso ripetuto di certe droghe determina uno stato di dipendenza, in alcuni casi solo fisica in altri psichica, in altri ancora entrambe.
Da un punto di vista scientifico è corretto invece usare la definizione di “sostanze psicotrope” o “sostanze psicoattive” perché tutte le droghe contemplano fra i loro effetti una modificazione dell’attività psichica.

5.2-Categorie di stupefacenti

Esiste un enorme varietà di sostanze stupefacenti. Alcune esistono in commercio e sono quindi reperibili ovunque, basti pensare al tabacco, all’alcool al caffè, sostanze legali estremamente diffuse; esistono però altre sostanze stupefacenti che dovrebbero essere usate solo sotto prescrizione medica, ma purtroppo quotidianamente ci imbattiamo in spacciatori (pusher) che le vendono per le strade (ad es. il metadone).
Gli stupefacenti possono essere raggruppati in sei classi:

• Oppiacei
• Ipnotico-sedativi
• Psicostimolanti
• Allucinogeni
• Cannabis
• Inalanti


5.3-Gli oppiacei

La classe degli oppiacei comprende derivate dall’oppio, come la morfina e l’eroina. Queste riducono l’angoscia e l’ansia e determinano una sensazione di calore, riducendo la sensibilità e le reazioni emotive al dolore.
La morfina viene usata in campo medico come potente analgesico ed è utile ad alleviare il dolore nei pazienti in stadio terminale.
L’eroina, derivato sintetico della morfina, veniva inizialmente utilizzata per calmare la tosse (come la morfina), ma poi si scopri che anch’essa provocava dipendenza e il suo uso fu abolito, anche in campo medico, in diversi Paesi. L’eroina elimina il dolore fisico, provocando un senso di benessere in cui nulla sembra essere un problema e generando una sensazione di calore e piacevole torpore. Essa può essere assunta in vari modi e in tutti i casi si assiste ad un forte rischio di dipendenza, anche se. In caso venga sniffata o fumata, tale condizione può svilupparsi più lentamente.
L’assunzione di eroina comporta gravi rischi. Andiamo a vedere quali sono i principali:
• Mancanza di purezza – Talvolta vengono aggiunte alcune sostanze in polvere, addirittura veleno per topi, detersivi, borotalco, etc.
• Scambio di siringhe- Esiste un elevato rischio di contrarre malattia a trasmissione sanguigna, virus quali: l’HIV e HBV (epatite B).
• Crisi d’astinenza- I suoi sintomi sono perlopiù costituiti da movimenti scalcianti delle gambe, ansia, insonnia, nausea, sudorazione, vomito, crampi, diarrea e febbre.
• Overdose- Avviene quando si assume un quantitativo troppo elevato di sostanza e l’organismo non lo tollera. In questo caso si può assistere a una forma di torpore estremo, ad un calo dell’intensità respiratoria che può sfociare nello stato di coma e portare fino alla morte.

Oggi sono diminuiti i decessi per overdose, perché i SER.T. forniscono terapie sostitutive ai loro utenti.
Uno di essi è il Metadone Cloridrato, sciroppo agonista dell’eroina; l’utente che ne fa uso non sente il bisogno di usare l’eroina, perché il metadone va ad interessare gli stessi recettori coinvolti dall’eroina, evitando cosi crisi d’astinenza. Bisogna comunque precisare che un eventuale sovrapposizione con l’eroina non porterebbe all’overdose.
Esiste anche il subutex (buprenorfina cloridrato), assumibile sotto forma di compresse sublinguali, antagonista dell’eroina, di differenzia dal metadone per il fatto di non deve essere assolutamente sovrapponibile all’eroina , in quanti i rischi di overdose possono essere molto alti. Invece risulta essere agonista della cocaina.
L’Antaxone, farmaco agonista/antagonista dell’eroina, viene invece utilizzato con pazienti che da tempo si trovano in astinenza, normalmente con un sostegno significativo da parte di familiari. Il suo uso comporta rischi superiori rispetto a quelli rappresentati dai due farmaci precedentemente citati.




5.4- Gli ipnotico –sedativi


Sono droghe che deprimono il sistema nervoso centrale.
Ricordiamo i barbiturici, gli ipnosedativi, le benziodiazepine, i solventi e l’alcool.
I barbiturici erano usati per alleviare l’ansia, indurre il sonno e curare l’epilessia. La sospensione dell’uso causa tremore, insonnia, ansia, convulsioni, delizio. Tutte le sostanze ipnotico-sedative, prese in piccole dosi, riducono gli stati d’ansia e di tensione, limitando però la capacità di concentrazione e la memoria, inducendo sensazioni di benessere, di rilassamento, di controllo e lieve euforia. Con dosi più elevate, soprattutto per quanto riguarda l’alcool, si assiste d una diminuzione delle inibizioni, del senso critico e dell’autocontrollo, mentre aumentano gli stati d’irritabilità e i comportamenti aggressivi. Dosi estremamente elevate di barbiturici, perlopiù in associazione con alcool, possono causare la morte per blocco respiratorio.
Le benzodiazepine sono sostituti dell’alcool ed erano inizialmente usate in campo farmaceutico nel trattamento degli stati d’ansia e  dell’insonnia, ma è risultato che il loro uso prolungato può portare alla dipendenza fisica.

5.5- gli psicostimolanti

Sono droghe che interessano il sistema nervoso centrale.
Ricordiamo la cocaina, il crack, le anfetamine, i farmaci anfetaminosimili, la caffeina, la nicotina e l’extasy.
• La cocaina è usata in medicina per indurre anestesia locale nella chirurgia del naso e della gola e per provocare vasocostrizione e ridurre l’emorragia durante gli interventi chirurgici. Può essere sniffata fumata o iniettata e dà una carica di adrenalina, aumenta il livello di attenzione, sopprime il sonno, diminuisce la fame, aumenta le capacità fisiche ed intellettuali, nonché il battito cardiaco e la pressione sanguigna, dilata le pupille, aumenta la frequenza respiratoria e la temperatura corporea. Una dose bassa favorisce gli stati d’eccitazione, mentre una dose più elevata sviluppa l’aggressività. L’uso prolungato genera tolleranza e una forma di dipendenza psichica (la famosa scimmia da cocaina).
• Il crack fu invece usato dai cocainomani negli anni ‘70 negli Stati Uniti. Essi cominciarono a trattare la cocaina con sostanze chimiche, liberandola cosi dal sale cloridrato. Questo si può fumare in una normale pipa, oppure lo si può riscaldare su di una lamina ed inalarne i fumi; il crack è cosi chiamato perché la polvere residua, dopo che è stato fumato, produce un crepitio. Gli effetti si manifestano entro pochi secondi (12) dall’inalazione, prima con sensazioni piacevoli per circa due minuti, quando l’effetto finisce sorgono sensazioni sgradevoli: stanchezza, depressione e ansia, mal di testa, dolore diffuso in tutto il corpo, maggiore sensibilità alla luce e al rumore. Chi ne fa uso può essere facilmente irritabile e sperimentare attacchi di panico e il suo abuso può portare gravi squilibri mentali.
• Le anfetamine si presentano sotto forma di polveri grigie o rosa, oppure di compresse che solitamente vengono sniffate o sciolte nell’acqua e sono in grado di eccitare il sistema nervoso centrale. Si assiste ad un aumento del battito cardiaco, della frequenza respiratoria e del diametro delle pupille, alla sudorazione delle mani e alla perdita d’appetito, nonché ad un aumento del grado di attenzione e della capacità comunicativa. Si può sviluppare tolleranza verso la sostanza, quindi può manifestarsi l’esigenza di dosi sempre maggiori al fine di evitare la stanchezza e la depressione. Sia la cocaina che l’anfetamina, in seguito ad un prolungato uso quotidiano, possono provocare sintomi psicotici simili a quella della schizofrenia acuta.
• Chi fuma tabacco assorbe nicotina in quantità sufficiente per ottenere certi effetti farmacologici e tende a regolare la frequenza delle assunzioni nel tentativo di mantenere stabile nel tempo il livello di sostanza nel sangue.
• L’extasy fa nascere invece una forte sensazione di benessere, di disponibilità affettiva, sviluppa un forte aumento dell’energia e talvolta crea allucinazioni. I suoi effetti possono essere la disidratazione, la perdita di peso e di controllo della memoria a lungo termine.

5.6- Gli allucinogeni e la cannabis

Entrambe le categorie alterano in maniera differente la funzione percettiva. Tra gli allucinogeni si annoverano LSD e la mescalina che, nella maggior parte dei Paesi, sono utilizzati in campo medico per la cura di alcune malattie mentali, di malati terminali, alcolisti e tossicodipendenti.
L’LSD favorisce i fenomeni allucinatori mentre il PCP sviluppa comportamenti estatici, sedazione e stimolazione. Con dosi elevate possono verificarsi episodi di confusione mentale, disorientamento, agitazione e panico.
Tra i vari derivati della Canapa indiana (cannabis) ricordiamo l’hashish e la marijuana, droghe che normalmente vengono fumate. I loro effetti sono simili: rilassamento, accelerazione della frequenza cardiaca, senso di rallentamento del tempo e aumento della percezione sensoriale; non inducono a dipendenza, ne fisica ne psicologica, ma il loro uso regolare può interferire con i processi d’apprendimento e maturazione psicologica.

5.7- Gli inalanti

 Normalmente non vengono considerati droghe, sono sostanze come la colla, lo spray e i solventi e quando vengono inalate agiscono sul sistema nervoso centrale. L’effetto sull’organismo dipende chiaramente dal dosaggio. In grandi quantità causano perdita di controllo e di coscienza, seguita da cefalea, nausea e sonnolenza, ma possono anche compromettere la vista, il controllo dei muscoli e rallentare notevolmente i riflessi, oltre a diminuire la capacità di giudizio. L’uso prolungato può provocare danni permanenti, mentre l’aspirazione di spray molto concentrati può provocare la morte.
Altre sostanze stupefacenti assunte per inalazione sono i popper impiegati in medicina come vasodilatatori e consumati spesso per il loro effetto afrodisiaco;
uno di loro è il nitrito d’isoamile. L’inalazione continua di queste sostanze può danneggiare il cuore e il sistema circolatorio.


5.8- Gli effetti delle droghe

Gli effetti che una droga determina sono fra loro diversi, a seconda della sua purezza, della dose, delle modalità scelte per l’assunzione e dell’associazione con altre droghe, ma anche per il fatto che sia naturale, raffinata o sintetica. L’effetto varia chiaramente da individuo a individuo, ma rimane il fatto che ingerita per via orale impiega molto tempo ad arrivare al cervello, quindi il suo assorbimento sarà lento e incompleto, mentre se viene sniffata il tempo in questione sarà minore e l’assorbimento maggiore.
Una certa variabilità nella reazione alla droga dipende anche da caratteristiche biologiche, quali il sesso, l’età, la statura e il peso.
L’effetto sui bambini può essere devastante, essendo il loro fegato poco sviluppato e non in grado di produrre gli enzimi necessari per metabolizzarla.
Un'altra componente significativa è data dal grado d’intensità e di durata che possono variare nei vari momenti della giornata.
Va inoltre precisato che una persona alta e magra può riscontrare effetti diversi da quelli presenti in una persona bassa e grassa, quindi quest’ultima può avere bisogno di dosi più basse rispetto alla prima.

































6- Aspetti psicologici e sociali


6.1- Processi psicologici coinvolti

Le caratteristiche psicologiche del consumatore di sostanze stupefacenti sono molteplici. Bisogna innanzitutto tenere conto della personalità nel suo insieme, dello stato psichico in cui si trova al momento dell’assunzione, nonché del suo atteggiamento generale verso la droga, tutti gli elementi interagiscono affinchè il consumatore sia più o meno cosciente di ciò che fa. Al di là di come si sia procurato la sostanza, il consumatore sa sempre come e quando usarla e in quale modo essa è in grado di influenzare i suoi pensieri, sentimenti e comportamenti.
Questo significa che la persona attribuisce a questa esperienza ciò che si aspetta di ottenere ed è ben cosciente che sarà in grado di modificare tutte le sue azioni. Alcuni esperimenti hanno dimostrato che la cultura e le credenze
Influiscono psicologicamente sui consumatori, poiché è vero che tutti i tipi di droghe portano a modificazioni biologiche e psicologiche, ma la scarsa o errata informazione può portare ad estremizzare i vari effetti delle droghe, a far si che le aspettative modifichino in modo reale comportamenti del soggetto.
Ci sono diverse tipologie di consumatori: quello una tantum, quello saltuario, quello regolare e quello dipendente. Vi sono inoltre coloro che assumono droghe leggere, mentre altri fanno uso di quelle pesanti, ma non possiamo scordare, come già affermato in precedenza, che vi sono differenze anche fra le modalità di assunzione. Da questo si può facilmente intuire come il fenomeno sia espressamente complesso e non possa essere considerato solo nella sua complessità.
Come abbiamo visto, il consumatore dipendente è quello che abusa della sostanza,facendone un uso ripetuto. Nel DSM IV (Diagnostic and Statistical Manual, quarta edizione) si parla di una modalità psicologica d’uso di una sostanza, dimostrata da ricorrenti e significative conseguenze avverse o correlate all’uso ripetuto della stessa. Questo fattore porta inevitabilmente la persona a non adempiere ai suoi doveri lavorativi o scolastici e a porsi inoltre nella condizione di essere un pericolo per se stesso e per gli altri ( ad es. la guida di un veicolo dopo l’assunzione di sostanze psicotrope).

6.2- L’uso di sostanze stupefacenti a scuola

L’uso di sostanze stupefacenti nelle scuole è un problema di notevole entità, poiché denota l’esistenza di adolescenti in cui l’unico vero divertimento è dato dallo “sballo” provocato dalla droga. Il più ci si trova di fronte a studenti demotivati, addormentati, apatici, indifferenti, con sbalzi d’umore inspiegabili.
La diffusione delle droghe, soprattutto quelle leggere, è molto ampia ed è accettata anche da chi ne fa uso.
Proprio per questo la scuola può diventare un luogo di spaccio. Pensiamo a quei ragazzi che vendono il “fumo” davanti alle scuole e nessuno che denuncia ciò che accade; questo avviene proprio perché un atto del genere  è socialmente accettato dal mondo adolescenziale o quantomeno non è criticato in modo troppo incisivo.
Questi ragazzi sono tendenzialmente all’oscuro degli effetti a medio e a lungo termine o più semplicemente non se ne preoccupano troppo. Nelle scuole che richiedono un impegno elevato, quindi popolate perlopiù da ragazzi di ceto medio - alto con buone disponibilità economiche, è diffuso l’uso di droghe pesanti, come la cocaina, dal costo elevato. Oltre a questo si deve purtroppo constatare che il loro prezzo ultimamente è calato quindi l’utenza è invogliata a farne un uso più sostanzioso, con conseguente aumento del danno psicofisico.
I ragazzi che frequentano scuole meno impegnative appartengono normalmente a ceti più bassi, quindi tendono ad usare sostanze più economiche, come ad es. l’hashish e la marijuana.
E’ proprio sulla base di questi elementi che gli insegnanti ì, in collaborazione con i genitori, si rivolgono a servizi in grado di inviare all’interno della scuola operatori e professionisti che svolgano un ruolo di prevenzione tramite counseling di gruppo, nel corso dei quali vengono affrontate discussioni e sviluppati confronti inerenti le problematiche rilevate fra gli studenti. C’è da dire che a volte tali servizi possono essere richiesti dagli stessi studenti, al fine di affrontare meglio i problemi rilevati all’interno della scuola stessa, oppure in ambiti esterni, quali i gruppi amicali.
Recentemente è stata fatta un’indagine statistica sull’uso di sostanze nelle scuole superiori ed è risultato che il 14,7% fa uso di cocaina all’interno dell’istituto, mentre è molto più elevata la percentuale di coloro che fanno uso di droghe leggere.
Molto elevato è il contatto con le sostanze o con le situazioni a rischio, a prescindere dall’uso. Infine, due persone su tre frequentano individui che fanno uso di droghe in modo regolare, mentre uno su due ha assistito personalmente a un atto di consumo.
















































TERZA PARTE
Counseling e tossicodipendenza

























7- Modalità di prevenzione


7.1- la prevenzione primaria

L’uso di droga  è un comportamento a rischio che può determinare conseguenze controproducenti, sia a breve che a lungo termine.
Attraverso la prevenzione intendiamo informare le persone sui rischi che l’uso di droga comporta, al fine di limitare l’incisività di questo problema sociale.
La prevenzione primaria si effettua nei confronti di persone fra i 14 e i 18 anni, la cosiddetta età d’iniziazione, perché sono coloro che si trovano più esposti al rischio di plagio e manipolazione da parte di trafficanti di droga. Lo scopo è quello di riuscire ad evitare o almeno a ritardare il più possibile il primo contatto di un soggetto in via di sviluppo con gli stupefacenti, per consentirgli cosi di giungere asd una più adeguata strutturazione delle sue abilità e risorse, riuscendo cosi a definire tramite varie esperienze che esulino dalla droga.

7.2- la prevenzione secondaria

La prevenzione secondaria è un’attività rivolta a coloro che hanno già avuto contatti con la droga, in particolare a chi è consumatore saltuario o regolare. Lo scopo è quello di riuscire a intervenire prima possibile, al fine di agire sugli stili di consumo più pericolosi, con l’uso eccessivo e contemporaneo di più droghe o l’assunzione smodata di alcool, ma anche la dipendenza psichica e fisica.
L prevenzione secondaria viene perlopiù all’interno di comunità di recupero per tossicodipendenti, e nelle scuole con ragazzi di quarta e quinta superiore contrariamente a quella primaria che si sviluppa solo nelle scuole.



7.3- la prevenzione terziaria

la prevenzione terziaria  è la prevenzione delle "ricadute",  esso si profila come l'andamento costante e "normale" di una tossicomania che nella sua evoluzione "fisiologica" alterna periodi di consumo ad altri di astensione,altri  la considerano una prevenzione delle complicanze del consumo di sostanze, il che in altri termini può identificarsi con la cosiddetta “riduzione del danno”. l'"empowerment" del paziente sia un'arma contro una depressione che nasce anche dal crollo dei sensi di autostima indotto dalla attitudine negativa degli altri. Questa si sviluppa nelle comunità per tossicodipendenti.







8- Principali modelli d’intervento Primario


8.1- principali modelli d’intervento primario

Questi interventi sono riconducibili a due grandi filoni.

• Il primo persegue soprattutto la prospettiva dell’astinenza e ricorre a messaggi di forte carica emozionale a principi etici, utilizzando l’informazione come deterrente. Questi tipi di intervento hanno carattere persuasivo e sono finalizzati ad impedire comportamenti disfunzionali.
• Il secondo è maggiormente orientato alla prospettiva d’uso responsabile ed è principalmente rivolto ad incrementare fattori protettivi relativi all’individuo o al rapporto che questi istaura con l’ambiente in cui vive. Tali fattori sono veri processi che riducono le condizioni di rischio e la catena di reazioni negative, favorendo il consolidarsi di sentimenti di benessere soggettivo e l’apertura a nuove opportunità relazionali e sociali (Rutter, 1990).
     Il rischio costituisce una situazione dinamica fra le sfide e le risorse, sia interne che esterne, che caratterizzano la vita delle persone, mentre le risorse esercitano un’azione di tutela per la salvaguardia degli equilibri psicologici e comportamentali dell’utente, soprattutto quando questi si confronta con situazioni di stress.
     Questi elementi protettivi sono diretti sia a ridurre i fattori di rischio che intervengono a monte della condotta di consumo, sia a favorire  tutte quelle risorse in grado di consentire la piena realizzazione personale e sociale dell’adolescente. Entrambi si realizzano tramite diverse forme d’apprendimento, oppure mediante veri e propri processi di formazione personale che danno al soggetto la responsabilità di attivare cambiamenti profondi e durevoli nello stile di vita (Joule e Beauvois, 1987).


8.2- Modelli finalizzati a persuadere

Si basano su processi comunicativi di tipo asimmetrico che presuppongono cioè una logica definibile dei “vasi comunicanti” ovvero: se si mette in contatto una fonte portatrice d’informazione con un ricevente che non la possiede si verifica un processo di omogeneizzazione del livello di conoscenza. La difficoltà è data dal fatto che l’utente non è mai un vaso del tutto vuoto (Cavazza, 1996).
Si tratta di interventi attuati in modo particolare negli anni ’70, cioè nella prima fase di diffusione delle droghe illecite, e che, nonostante la loro scarsa efficacia, continuano ad essere ancora utilizzati, specialmente nelle campagne pubblicitarie.
Ricordiamo innanzitutto gli interventi centrati sulla paura, che si basano sul principio che sia possibile persuadere i ragazzi a non utilizzare una droga, attuando interventi o campagne che ne drammatizzino ed enfatizzino i rischi.
Si tratta di programmi che forniscono delle informazioni sulle droghe, con particolare riferimento alle conseguenze negative nelle quali può incorrere chi ne fa uso. Per questo tipo di modello ci si avvale di poster e/o di spot, come, ad es. un cartellone con un ragazzo dagli occhi completamente bianchi, senza pupille, recante la scritta “se ti droghi ti spegni”. Se in un primo momento questo tipo di messaggio può incutere paura, successivamente potrà far si che la persona sviluppi atteggiamenti difensivi, mostrando disinteresse e agevolando cosi la rimozione del soggetto figurativo, portando all’inefficacia dell’intervento.
Oltre a questo tipo d’intervento è possibile avere un approccio di tipo diverso, rivolto alla salvaguardia dei valori. In questo caso si parte dal presupposto che l’uso della droga è un comportamento moralmente dannoso e sbagliato e vengono evidenziati i possibili danni, favorendo cosi l’adesione a valori e principi in netto contrasto con essi. Rientra in quest’ambito anche l’importanza dell’educazione e la salvaguardia della salute, dove si sottolinea la sua importanza e il valore della vita, incoraggiando l’esercizio fisico e le attività ricreative.
Questo approccio può prevedere l’uso di opuscoli informativi sui rischi a medio e lungo termine, con la speranza che questo, porti la persona ad abbandonare comportamenti disfunzionali. Tale metodo si dimostra efficace soprattutto verso chi non è ancora coinvolto nel consumo di sostanze.

8.3 – Modello centrato sull’impegno

Questo modello induce l’utente ad un comportamento incoerente rispetto ad un atteggiamento abituale, dove l’utente sperimenterà uno stato di dissonanza cognitiva che potrà  essere ridotta modificando l’atteggiamento stesso.
Questa teoria si rifà infatti a quella della dissonanza magnetica. Nella dissonanza cognitiva di Festinger (1957) è già presente l’idea che un atteggiamento possa modificare per effetto di un comportamento.
Cavazza (1996) si spinge oltre, affermando che: le condotte sono in grado di produrre degli effetti, non solo sugli atteggiamenti delle persone, ma anche sulle condotte successive.
L’impegno è il legame che si instaura fra l’individuo e i suoi atti e l’attuazione di determinati comportamenti ha un effetto di “congelamento” riguardo a quegli stessi comportamenti in diversi ambiti. Ad es. se induciamo un ragazzo a fare una determinata cosa che non vuole fare, vedremo che questo accadrà solo in quella circostanza, ma non si comporterà più cosi in un'altra occasione. Questo avviene perché è costretto a tenere quel comportamento e non ha gradito l’imposizione, mentre è possibile che ripeta l’esperienza in futuro nel caso in cui abbia la sensazione d’averla liberamente scelta.
Joule e Beauvois (1987) distinguono due tipi d’atti impegnativi:

• Gli atti problematici, che si conformano alle idee e alle motivazioni dell’individuo, rendendolo più resistente al cambiamento in tutto ciò che lo riguarda;
• Gli atti non problematici, che non si conformano alle idee e producono una modifica dei contenuti ideali che inducono una razionalizzazione dell’atto.


8.4- Modello del piede nella porta

Questa tecnica, appartiene alla categoria dei modelli centrati sull’impegno, si basa sull’ipotesi che una modificazione apparentemente innocua nel comportamento di una persona possa produrre modificazioni nei suoi atteggiamenti e nei suoi valori.
Robert Cialdini scoprì la legge sulla coerenza secondo la quale: Se si chiede ad una persona di attuare un comportamento poco costoso, c’è la possibilità che essa attui una seconda volta un atteggiamento molto costoso soprattutto se la cosa viene richiesta in tempi contenuti. Ciò è dovuto probabilmente al fatto che il consenso dato la prima volta abbia fatto percepire la presenza di persone accondiscendenti.

8.5- Programmi informativo-educativi

Si propongono di fornire una serie di informazioni sulla natura, sui rischi e sulle possibili conseguenze a lungo termine dell’uso della droga, per ridurre le incertezze e le perplessità dei ragazzi, confrontando punti di vista diversi da quelli già posseduti sull’argomento.
L’idea di fondo è che, quanto più gli individui diventano consapevoli dei rischi connessi all’uso di sostanze, tanto più è probabile che elaborino un atteggiamento negativo verso esse e che razionalmente decidano di non assumerne.
Bisogna però precisare che , anche se l’informazione è efficace, può non risultare sufficiente allo scopo. Nel caso dell’AIDS, si è notato che gli adolescenti tendono ad assumere comunque atteggiamenti basati sulla loro intuizione di partner sani, giungendo cosi con facilità ad avere rapporti non protetti. Tali comportamenti sono il segnale di una scarsa percezione del rischio personale, ma anche di un certo fatalismo nell’esposizione consapevole.
L’insieme degli studi dimostra che la semplice informazione è insufficiente, giungendo tra l’altro a suscitare una forte curiosità e ad incrementare  cosi il consumo di sostanze. Ciò si verifica perché l’informazione sugli effetti delle droghe pone il fenomeno in modo diverso, quasi in contrasto con le immagini sociali sordide e drammatiche dei fenomeni di consumo.
Altro elemento importante è dato dalla credibilità delle informazioni, infatti, molti ragazzi dispongono già di informazioni assai più dettagliate  di quelle fornite dai genitori e insegnanti, che proprio per questo perdono di attendibilità nei confronti dell’adolescente, ad es. se una madre dà informazioni sulla droga al figlio, questi penserà che lei parla cosi perché è la madre e le madri dicono le stesse cose, non tanto per una reale conoscenza del fenomeno. L’adolescente in questo caso può considerare l’informazione come una forma d’invasione di campo, come una paternale, di conseguenza non prenderà in considerazione ciò che gli è stato detto in precedenza è ci scherzerà sopra con gli amici.
L’insieme di queste evidenze ha contribuito a far maturare la convinzione che l’informazione, anche se correttamente processata, non comporta necessariamente alcun tipo di adesione personale ai suoi contenuti (Pombeni, 1995).

8.6- Programmi educativo-affettivi

Sorti intorno alla metà degli anni 70, sono focalizzati sugli aspetti psicosociali degli adolescenti e partono dal presupposto che, se si riescono a diminuire e correggere certi fattori personali predisponenti, utilizzando tecniche educative volte ad incrementare le abilità e a soddisfare i bisogni dei soggetti nelle istituzioni sociali in cui sono inseriti, è possibile ridurre la probabilità di ricorso alla droga.
Questi programmi includono svariate attività di sperimentazione, da svolgere in classe, volte ad elevare l’autostima e la capacità di prendere decisioni e di risolvere problemi, nonché di definire i valori e le abilità interpersonali e comunicative.

8.7- incremento delle risorse personali

Vi sono modelli che si fondano sull’idea che: quanto più un adolescente dispone di elevati livelli di autostima e si rivela in grado di controllare gli impulsi e di instaurare e mantenere relazioni interpersonali, tanto meno sarà esposto al rischio di incorrere in esperienze d’insuccesso che possono favorire il ricorso alle droghe.
Questo approccio considera il consumo di sostanze come un comportamento funzionale ad un comportamento abituale, vedendo cosi la prevenzione come un rafforzamento dell’individuo, che diventa in grado di resistere alle diverse influenze e pressioni a fumare, bere e assumere droghe.
Questo tipo di programma prevede la decodificazione dei messaggi impliciti ed espliciti e a saper dire “no”. Ad es. si può proporre un film nel quale si possono riscontrare situazioni concrete di pressione sociale; terminata la visione, alcuni studenti drammatizzeranno delle situazioni, mentre altri si limiteranno ad osservare. Il presupposto è che il ripetersi di questi role-play vada a stimolare dichiarazioni negative verso la sostanza vista nel filmato, effetto che sarà poi rinforzato dagli insegnanti, ma anche dagli studenti e dagli educatori.













































9- Gli approcci comportamentali


9.1- Caratteristiche essenziali

Questi tipi di approccio si fondano soprattutto su teorie comportamentiste e neocomportamentiste. Si tratta di interventi che affrontano in modo diretto l’abuso e la dipendenza, focalizzandosi sul comportamento specifico e sulle circostanze del problema droga nel tentativo di modificarle.
Essi implicano la ricerca di informazioni sui comportamenti target, su ciò che rinforzandoli li mantiene, sulle opportunità che l’ambiente di vita dell’utente offre, di stimolare condotte più desiderabili e sulle capacità che egli ha di osservare e rinforzare sé stesso.


9.2. le tecniche motivazionali

Gli interventi motivazionali costituiscono l’applicazione clinica della teoria del cambiamento proposta da Prochaska e Di Clemente (1986). L’intervista motivazionale si propone in specifico di aumentare i livelli di dissonanza cognitiva, in modo che il soggetto elabora le motivazioni necessarie ad identificare possibilità concrete di cambiamento.
Questa strategia, originariamente messa a punto da Miller (1983) nel trattamento di bevitori problematici, si fonda sull’idea che il consumatore sia una persona: responsabile, capace di prendere decisioni, razionale sul consumo di sostanze e di impegnarsi a cambiare. Ma il paziente che si rivolge ai servizi è generalmente piuttosto ambivalente circa la possibilità di cambiare, quindi compito dell’operatore sarà quello di incrementare le motivazioni al cambiamento.
Gli obiettivi che questa strategia si propone di perseguire sono numerosi, ma possiamo delinearne alcuni principali.

• Favorire un approccio empatico che faccia preferibilmente riferimento a quello non direttivo di Rogers (1951);
• Rimuovere le eventuali barriere che possano contrastare l’accesso al trattamento;
• Diminuire il desiderio dell’utente di mantenere la situazione esistente, non omettendo tuttavia di considerare i costi che il cambiamento comporta;
• Fornire un feedback sulla situazione dell’utente, mettendolo in rapporto ai rischi e alle conseguenze a cui potrà portare in futuro.

Gradualmente l’operatore diventa più selettivo nelle riflessioni che fa l’utente, elicitando e rinforzando tutte le affermazioni che hanno carattere auto motivazionale. Tali affermazioni possono riguardare la ricognizione del problema (“sto spendendo tutti i miei soldi per l’eroina e la mia famiglia sta male”), l’espressione di un interesse (“Mi dispiacerebbe ammalarmi!”), l’intenzione di cambiare (“Penso che dovrei smettere”) e un certo ottimismo nei confronti del cambiamento (“Smettere non è facile, ma sono sicuro di esserne capace”).

• Delineare obiettivi realistici e raggiungibili;
• Adottare un atteggiamento di aiuto attivo in relazione al processo di cambiamento.

Una strategia assai simile è stata delineata da Van Bilsen e Van Emst (1990) con tossicodipendenti. Si tratta anche in questo caso di un approccio umanistico che non intende in alcun modo convincere l’utente a prendere iniziative concrete in relazione alla sua condotta di consumo, quanto piuttosto fornirgli la supervisione ad una presa di decisione di cui egli è protagonista.
Per iniziare il trattamento e utilizzare proficuamente una serie di procedure terapeutiche, il soggetto deve aver raggiunto una fase di cambiamento attivo ed aver elaborato sufficienti motivazioni. La transizione dalla fase contemplativa a quella del cambiamento attivo può essere favorita da interventi mirati che prevedono tre fasi:

1. elicitazione, durante la quale l’operatore adotta uno stile non valutativo, cosi da ottenere il massimo delle informazioni sugli atteggiamenti e i comportamenti del soggetto;
2. informazione, durante la quale l’operatore fornisce feedback;
3. negoziazione, durante la quale l’operatore e l’utente discutono dei possibili cambiamenti che il cliente intende attuare.

Durante l’intervista motivazionale l’operatore può utilizzare una serie di tecniche come ad es.

• riflettere su ciò che il soggetto dice, selezionando ed enfatizzando soprattutto le affermazioni che esprimono motivazioni al cambiamento;
• dare struttura (in modo empatico e non moralistico) alle informazioni che il soggetto riporta, riorganizzandole in modo da stimolarlo ad una comprensione più profonda di certi eventi e questioni;
• ristrutturare tali informazioni, fornendo un significato differente e più positivo alle esperienze, ai comportamenti o ai sentimenti espressi dal soggetto;
• sintetizzare ciò che il soggetto ha detto in precedenti sedute o ciò che indica in momenti diversi della stessa seduta;
• fare domande aperte chiuse o semi aperte;
• ricorrere a paradossi o provocarli.

A differenza di Miller, l’operatore durante il feedback non opera una manipolazione del paziente, in modo di generare dissonanza, ma giunge ad attribuirgli l’intera responsabilità del trattamento.



9.3- Il Training Group

Il T-Group è una sigla che indica il gruppo di addestramento della sensibilità, ovvero Sensitività Training Group. Carl Rogers ha definito il T-Group come la più potente scoperta di scienze sociali del secolo. E’infatti un’esperienza di indagine e di cambiamento che il gruppo fa su sé stesso con l’aiuto di un trainer o di un operatore, chiamato anche facilitatore.
E’una tecnica di sensibilizzazione alle relazioni interpersonali basato sulle tecniche autocentrate di ispirazione lewiniana. L’obiettivo principale è quello di migliorare le capacità individuali per vivere una situazione di piccolo gruppo, scoprendo propri comportamenti tipici e la loro funzionalità rispetto ai diversi momenti di vita di gruppo e ai propri obiettivi personali.
Si svolge con un piccolo gruppo guidato da un conduttore esperto in dinamiche di gruppo. Gli studenti sono coinvolti in prima persona ed essi contribuiranno in modo determinante all’evoluzione del gruppo e degli avvenimenti.
La tecnica è stata inventata quasi per caso da Kurt Lewin e dai suoi allievi nel 1946; nella sua forma più pura il T-Group è un esperienza di almeno 10 unità di lavoro di novanta minuti ciascuna, con un intervallo di almeno trenta minuti l’una dall’altra. I ragazzi devono essere estranei fra loro e il loro numero deve essere compreso fra gli otto e i dodici membri. Essi sono chiamati a immergersi personalmente nella situazione, a vivere e simultaneamente ad analizzare la situazione, infine stimolati a misurarsi
Con le dinamiche e i processi relazionali che stanno alla base della nascita e della vita di un gruppo.
Tutto questo avviene secondo le modalità del “qui ed ora”.
L’operatore ha un ruolo di stimolo e di interpretazione, ma in nessun caso è suo compito dire al gruppo ciò che deve o non deve fare.
Le regole sono tre:

• considerare l’esistenza di due soli ruoli, quello di membro di uno staff e quello di partecipante;
• comunicare agli utenti, all’inizio del training, la necessità di creare una griglia temporale;
• evidenziare la presenza di uno spazio fissato per l’esperienza.

Numerose ricerche hanno dimostrato che la partecipazione ad uno o più T-Group è indispensabile per chi volesse aumentare le proprie capacità personali d’osservazione, di comunicazione, di leadership e di lavoro di gruppo. In particolare il T-Group dovrebbe essere una tappa obbligata per ogni tipo di operatore sociale.


9.4-Il training di autocontrollo comportamentale


Questo tipo di approccio si propone di stimolare l’utente ad apprendere le abilità necessarie a controllare il consumo di sostanze.
Le strategie utilizzate nel contesto della relazione  diadica operatore –utente sono finalizzate a modificare un’abitudine di consumo eccessivo in uno più moderato. Dal momento in cui i nuovi comportamenti si stabiliscono, occorre che i soggetti acquisiscano ulteriori abilità che gli consentano di mantenere nel tempo i risultati raggiunti (McMurran, 1994).
L’operatore deve chiedere agli utenti quali siano le loro aspettative riguardo a un certo tipo di comportamento o sentimento da modificare, stimolandoli cosi ad identificare gli antecedenti e le conseguenze, arrivando quindi a formulare un preciso piano d’azione.
Il processo comincia con l’automonitoraggio, tramite il quale il soggetto terrà sotto controllo tutto ciò che riguarda quel comportamento o sentimento che si è deciso di cambiare. Quindi riferirà all’operatore tutti i momenti in cui si è verificato, il luogo, le persone che erano presenti ed altri particolari significativi.
Tale attività di monitoraggio è ritenuta una componente essenziale dei training discriminativi, in cui il soggetto impara a distinguere gli stimoli antecedenti che inducono certi tipi di risposte e le conseguenze che le mantengono. Solo se avrà acquisito questo tipo di conoscenze e di consapevolezza sarà in grado di disporre di ulteriori abilità di autocontrollo. A questo punto il soggetto porrà alcuni limiti all’assunzione di sostanze, effettuerà restrizioni sui giorni o sulle occasioni di consumo, nonché sul denaro che sarà disposto a spendere.
Successivamente si impegnerà a effettuare una modifica degli eventi che in genere precedono l’uso, proprio perché si ritiene che costituiscano una catena in cui ogniuno di essi richiama quello successivo. Le strategie decisionali e il controllo sullo stimolo determinano una serie di regole da seguire in modo tale da adottare stili di consumo moderato.
La dinamica delle circostanze implica invece che si modifichino le conseguenze del comportamento attraverso un sistema di autoricompensa, nel caso in cui gli obiettivi siano rispettati (“Vado a comprarmi qualcosa che mi piace”, oppure “Dico a me stesso di stare nei limiti che mi sono prefissato e ciò per me è un vero progresso”) e di autopunizione nel caso contrario.

9.5- Il training rivolto all’acquisizione di abilità sociali

E’finalizzato allo scopo di potenziare le capacità del soggetto, quindi di fronteggiare le influenze esercitate dall’ambiente in cui vive ad assumere delle sostanze. Il metodo utilizzato è il role play, in cui il soggetto e l’operatore, esaminano una situazione sociale problematica allo scopo di rendere lo scenario familiare ad entrambi; in seguito il soggetto la rappresenta utilizzando nel modo più consono le sue abilità, ascoltando infine il feedback che l’operatore gli fornisce.
Questa strategia si fonda dunque su tre tipi di processi:
1. il modelling, dove si dà una dimostrazione di performance o competenze;
2. la prova, in cui il soggetto prova concretamente la parte;
3. il feedback, in cui operatore e soggetto discutono insieme la performance ed identificano della possibilità di migliorarla.

9.6- Il training centrato sul problem solving

E’ utilizzato quando si valuta che l’addiction si sia innescata, soprattutto in seguito all’impiego di modalità inefficaci nel far fronte a situazioni problematiche. Questa strategia messa a punto da D’Zurilla e Goldfried (1971) per trattare diversi tipi di comportamento problematico, prevede cinque fasi:

1. Innanzitutto bisogna superare una fase d’orientamento, in cui la persona impara a riconoscere un problema quando esso si presenta. Quindi dovrà fermarsi a riflettere, pensando a una possibile soluzione; gli stati d’ansia, di paura, di noia (chiari sintomi dell’astinenza) che il problema suscita non sono ignorati, ma diventano gli indicatori per passare alla fase successiva.
2. E’ la fase in cui si procede alla definizione del problema e degli obiettivi realistici da raggiungere, avviene cioè l’identificazione dei fattori che rendono problematica la situazione.
3. Si passa alla generazione di alternative cioè di strategie che consentano di raggiungere l’obiettivo;
4. Si sceglie l’alternativa che si pensa essere la migliore (presa di decisione) e si elabora un piano d’azione.
5. L’ultima fase è costituita dalla valutazione dell’efficacia a raggiungere l’obiettivo. Se quest’ultimo è stato pienamente raggiunto, il processo di problem solving può dirsi completato, in caso contrario si dovrà invece ricominciare partendo da un’analisi accurata di ciò che ne ha impedito il processo.

9.7 – Procedure per fronteggiare gli stati di stress

Sono soprattutto indicate per le persone che presentano elevati problemi d’ansia; esse sono aiutate a porre sotto controllo le proprie reazioni allo  stress, soprattutto in tre modi:

1. modificando l’ambiente per ridurre la frequenza e la severità degli eventi stressanti;
2. cambiando la percezione che hanno degli eventi stressanti;
3. utilizzando strategie di coping attivo.

Per poter intervenire sullo stato di tensione occorre innanzitutto identificare cosa contribuisce a determinarlo. In molti casi è il modo in cui la persona pensa ad un evento o ad una situazione a creare stress piuttosto che all’evento in sé. Distorcere i fatti attraverso forme di pensiero negativo o irrazionale può provocare tensioni ed emozioni spiacevoli. A tal proposito, Monti e alcuni suoi collaboratori (1989) indicano tre specifiche procedure che consentono di modificare forme di pensiero negativo:


1. sorprendersi mentre si fanno pensieri negativi;
2. fermarsi;
3. modificare i pensieri negativi sostituendoli immediatamente con altri positivi.

E’ possibile inoltre ricorrere a diverse strategie che aiutano a rilassarsi, inserendo specifiche attività nella routine quotidiana e utilizzando tecniche che agiscano sulla muscolatura, la cui tensione è strettamente legata all’ansia e questa può essere ridotta se i muscoli vengono rilassati (Ravenna, 1997).

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