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Pedagogista e Pedagogista Giuridico ( CTU e CTP)

martedì 14 novembre 2017

come è nata la lingua italiana

La nascita della lingua italiana dall' indoeuropeo al greco al latino classico al volgare all' italiano e i suoi dialetti.
L'italiano è una lingua romanza Il termine “romanzo” deriva dall'avverbio latino romanice riferito al parlare vernacolo (romanice loqui) rispetto al parlare in latino (latine loqui). Da romanice deriva la forma francese romanz, da cui l'italiano romanzo. Tali parlate formano quello che in dialettologia viene chiamato continuum romanzo) o neolatina ( le lingue neolatine sono: italiano, francese, provenzale o occitana (Francia del sud) spagnolo o castigliano, catalano, e il valenziano ( dialetto catalano) portoghese , ladino parlato in Alto Adige (Südtirol), TrentinoVeneto e Friuli-Venezia Giulia.). L'italiano è  una lingua derivata dal latino, appartenente alla famiglia delle lingue indoeuropee ( che comprende tutte le lingue europee, tra cui: latino, greco,  ed anche quelle germaniche o anglofone (tedesco ed inglese)  e quelle asiatiche o nelle ramificazioni delle  lingue italiche che può essere applicata a qualsiasi lingua parlata nella regione italiana nell'antichità, sia essa di ceppo indoeuropeo o no quali l'etrusco, il retico , la lingua della Stele di Novilara, il ligure,  L'indoeuropeo è una lingua virtuale: essa cioè non è storicamente verificata, ma è stata ricostruita retrospettivamente a partire da diverse lingue, sia moderne sia antiche. Si immagina che un gruppo di tribù, dislocate tra Europa e Asia tra il IV e il III°millennio. a.C- e parlanti dialetti affini, si sia sparso attraverso diverse migrazioni, assorbendo le parlate dei popoli conquistati.
Verso la fine del II millennio a.C., una delle popolazioni indoeuropee, che parlava il dialetto destinato a diventare la lingua latina, si installò nella penisola italiana.

Secondo l'idea tradizionale, quindi, in età classica il latino si impose sulle lingue delle popolazioni con cui i Romani si imbatterono nella penisola italiana. Se tra il III e il II secolo a.C. la penisola italiana è ancora costellata da diverse parlate, al tempo di Augusto esse sono ridotte a "vernacoli di scarsa importanza".
Le cose,come si può capire  da sopra, cambiano in età imperiale dal 27 d. C. al 476 d.C.: anche se le varietà diatopiche delle diverse province dell'Impero restano reciprocamente compatibili, si fa sempre più forte l'influenza del parlato meno colto, il che è particolarmente vero con la cosiddetta crisi del III secolo, "quando [...] l'ignoranza dilaga"[15]. Anche in questa fase i grammatici cercano di proteggere la lingua dalla "corruzione", non solo a Roma, ma anche nelle province. La forza innovativa della lingua parlata, almeno fino alla crisi del III secolo, obbedisce comunque agli orientamenti accolti nella capitale o in essa partoriti.[15] Dopo la crisi, invece, il prestigio di Roma è compromesso: le premesse di questa spinta centrifuga possono essere trovate in quella nova provincialium superbia di cui si lamenta il senatore Trasea Peto ai tempi di Nerone (TacitoAnnales, XV, 20) e significative le elezioni a imperatore di personaggi come Traiano e Adriano (nati entrambi a Italica, nei pressi dell'odierna Siviglia) o Antonino Pio e Marco Aurelio (di origine gallica).
Al termine dell'età classica Per età classica – o età attica – si intende il periodo compreso tra le guerreI e II contro la Persia (490 Ac-479 a.C.) e la fine della guerra del Peloponneso (404 a.C.) che oppose Sparta e Atene. sicuramente il latino parlato aveva un ruolo importante in penisola. Tale idioma era parlato sicuramente dagli abitanti di Roma e del Lazio, più quelli delle aree popolate direttamente da romani. La forma esatta di questa lingua e la sua vicinanza al latino scritto non sono però facili da accertare. Tra gli studiosi recenti, József Herman ipotizza che ancora per tutto il VI secolo gli abitanti dell'area europea dominata da Roma, e a maggior ragione gli italici, parlassero (o "credessero di parlare") latino. Dai documenti scritti non si ricavano però testimonianze esplicite.

Il latino parlato correntemente dal popolo non corrispondeva al latino classico, modello letterario codificato da alcuni autori tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Nel II secolo a.C. età antica Roma aveva iniziato ad espandersi conquistando, nel corso di alcuni secoli, le varie regioni della penisola italiana, abitate da popoli differenti sia per lingua che per razza, unificandoli e dando così l'avvio ad una letteratura latina che produsse grandi scrittori tra i quali LucrezioCatulloCiceroneVirgilioOrazioLivioOvidio e Tacito.

Il ligure, già profondamente compromesso dall'impatto con le lingue celtiche, viene definitivamente dissolto dall'avanzare del latino
La guerra sociale (88 a.C.), dal 91 all'88 a.C. vide opposti Roma e i municipia dell'Italia fin allora alleati del popolo romano. Questo segnò il declino dell'etrusco ( lingua di una popolazione insediata in Italia ma non di origine indoeuropea essi si insediarono soprattutto in toscana e nelle marche) e delle lingue osco-umbreBruno Migliorini  sostiene che dell'etrusco "nessuna iscrizione sia posteriore all'era cristiana pare, comunque, che l'imperatore Claudio (I secolo d.C.), nei suoi studi di etrusco, si avvalesse di parlanti e che la lingua fosse dunque ancora viva. È poi probabile che l'etrusco sia persistito come lingua cultuale fino al IV secolo d.C. e che gli Etrusci haruspices che accompagnavano gli eserciti di Giuliano consultassero libri ancora scritti in etrusco. Il celtico potrebbe essere sopravvissuto in Gallia Francia (e in particolare nelle Alpi elvetiche) fino al V secolo d.C. e forse oltre.
 Il greco antico lingua ufficiale è discendente dal miceneo ( città della Grecia antica)  in cui dal II sec. A. C. si sviluppò in età ellenistica ( altro modo di definire i greci) detta anche età alessandrina, definito "koinè" (κοινή) o "greco biblico". L'età ellenistica o alessandrina  è quel periodo che  va dal (323 a.C., anno della morte di Alessandro Magno e terminare con la morte dell'ultima sovrana ellenistica, Cleopatra d'Egitto e con la conquista romana del Regno tolemaico d'Egitto (battaglia di Azio del 31 a.C.) che porta l'Oriente nell'orbita romana occidentale)). la lingua è quella di Omero e dei suoi poemi l'Iliade e l'Odissea  in età imperiale periodo compreso tra il 27 a.C. (proclamazione di Ottaviano come "Augusto") e il 476 d.C. (data della deposizione di Romolo Augustolo, presa come termine dell'impero romano d'Occidente)".; la sua evoluzione porterà al greco bizantino e infine al greco moderno.,
Uno dei dialetti volgari più importanti fu  il  greco ionico attico esso veniva parlato in Grecia tra il periodo arcaico (circa tra il IX secolo a.C. e il VI secolo a.C.) e il periodo classico (all'incirca dal V secolo a.C. fino al IV secolo a.C.).
 Il Greco che si diffuse in Italia, soprattutto in Calabria e Puglia, fu il dialetto greco ionico tra XI sec a.C. ed il XV sec. D.C. ,ma anche altri dialetti greci si diffusero: il dorico, il greco nordoccidentale e l'arcado-cipriota.

Per definire il rapporto tra latino e italiano è molto importante delineare lo sviluppo del latino parlato, con le sue variazioni diatopiche (da luogo a luogo) e diastratiche (secondo la stratificazione delle classi sociali), in particolare a partire dall'età imperiale.

Il cosiddetto latino volgare si presentava in diverse forme, con forti variazioni diatopiche: da esso sorsero le diverse lingue neolatine. Il latino volgare era, in quanto lingua parlata, di gran lunga più sensibile al cambiamento di quanto non fosse il latino della tradizione letteraria.[6] Ciò nonostante esso conservava molti tratti che avevano accompagnato la lingua latina fin dalla sua fase arcaica.
Importanti fondamenti del cambiamento del latino parlato sono due fatti storici in età imperiale tra il 27 a.C. (proclamazione di Ottaviano come "Augusto") e il 476 d.C. (data della deposizione di Romolo Augustolo, presa come termine dell'impero romano d'Occidente):
·         il regime personale di Ottaviano Augusto (I secolo a.C.-I secolo d.C.), con le sue conseguenze sulla struttura sociale della Roma antica Auusto aveva una propensione verso i volgarismi
·         il diffondersi del Cristianesimo, rispetto al quale una data importante è certo il 313 (anno dell'Editto di Milano, con cui i due augusti Costantino e Licinio proclamano la libertà religiosa nell'Impero romano), anche se "i privilegi concessi ai Cristiani segnano solo il libero espandersi di peculiarità prima represse"
In questo contesto, è facile constatare che la lingua scritta è più conservativa e colta ed essa era parlata dai ceti alti della società , mentre quella parlata è più un volgare dialetto e veniva parlata dagli analfabeti anche se sarebbe erroneo concepire latino parlato e latino scritto come due mondi separati: l'influenza delle due forme di espressione fu reciproca e forte, e la stessa lingua parlata dagli analfabeti influì sulla lingua scritta.. Si può osservare che "la lingua letteraria si costituì attraverso una stilizzazione del parlato"[13]: ciò accadde ai tempi della Repubblica (convenzionalmente a partire da Livio Andronico, nel 240 a.C.). Le differenze tra parlato e scritto, lievi all'inizio, finiranno per essere assai forti, ma prima dell'Impero lo scarto riguardava più una questione di stile e di registro: non ci troviamo, insomma, affatto di fronte a due lingue diverse.[13] Quando Cicerone scrive a Papirio Peto:
« verumtamen quid tibi ego videor in epistolis? Nonne plebeio sermone agere tecum? »
(Lettere familiari, IX, 21)
quel plebeio sermone non va certo inteso come "latino volgare": Cicerone intende solo "alla buona"
In questo contesto si inseriscono le invasioni barbariche dal 166 al 476 d.C., con l'insediamento di diverse popolazioni germaniche nella penisola. Al di là dell'ingresso nelle lingue italiche di qualche centinaio di parole germaniche, però, la presenza dei barbari non sembra aver lasciato tracce linguistiche dirette; le loro lingue scomparvero comunque entro il Mille, lasciando poche testimonianze scritte (della lingua dei longobardi, che pure dominarono per due secoli una buona parte dell'Italia settentrionale e meridionale, non è stata tramandata neanche una singola frase: come testimonianza esplicita rimangono solo alcune parole longobarde citate in opere scritte in latino).
Solo poco prima del Mille compaiono documenti in cui si registra una lingua parlata che, agli occhi di chi scriveva, sembrava ormai qualcosa di diverso dal latino. I primi documenti di questo tipo sicuramente databili risalgono infatti al X secolo, in ritardo rispetto ad altre aree come quella spagnola e francese.
In questo periodo, con ogni probabilità, la maggioranza delle popolazioni italiche parlava un proprio "volgare", diatopicamente distinto e molto diverso dal latino classico. Il latino restava però in uso presso una minoranza di persone istruite, in massima parte sacerdoti e monaci della chiesa cattolica, che probabilmente se ne servivano spesso anche come lingua della conversazione.
Goti (in latino Gothones) furono una federazione  di tribù germaniche orientali che invasero l'Europa centro-meridionale nell'ultimo periodo dell'Impero romano d'Occidente, che, secondo le loro stesse tradizioni, erano originarie dell'isola di Gotland e della regione di Götaland in Svezia. A ondate sbarcarono sulle coste del Mar Baltico e da qui si spinsero a sud conquistando le popolazioni che trovarono sul loro cammino. Due tribù strettamente apparentate, i Gutar e i Götar, che rimasero in Scandinavia, sono anche annoverate fra i Goti con i nomi, rispettivamente, di Gotlandi e Geati. E successivamente si divisero in Visigoti i( germani occidentali ed ostrogoti i scandinavi orientali. A loro dobbiamo la diffusione di un tipo di scrittura gotica, una particolare tipologia di grafie dell'alfabeto latino, sviluppatesi nell'Europa settentrionale a partire dall'XI secolo, e poi largamente diffuse in tutto il continente. Le lettere sono caratterizzate da una minore spaziatura rispetto al modello grafico tondo, sopra e sotto sono rimarcate da spessi tratti, e si riduce anche lo spazio tra le righe. L'effetto che si ottiene è quello di una scrittura alta e spigolosa, molto elegante, ma scura e di più difficile lettura.

Prime attestazioni antiche del volgare italiano

L'iscrizione della catacomba di Commodilla[

Tra il VI-VII secolo e la metà del IX va datata l'iscrizione della catacomba di Commodilla: si tratta di un testo di natura effimera, forse vergato da un prete che officiava nella catacomba.[  Recita:
« Non dicere ille secrita a bboce »
Una traduzione potrebbe essere "Non dire quei segreti ad alta voce".

L'Indovinello veronese Dell'VIII-IX secolo è l'Indovinello veronese[53]:

« se pareba boves alba pratalia araba & albo versorio teneba & negro semen seminaba »

Il Placito capuano

Maggiore accordo tra gli studiosi c'è nel dare la palma di "atto di nascita" della lingua italiana al Placito capuano del 960[. Tale propensione nasce soprattutto in ragione dell'ufficialità di tale documento, trattandosi di un verbale notarile su pergamena, e della chiara coscienza linguistica che ha il redattore (un tale Atenolfo, notaio) dell'uso che fa del volgare. Il contenzioso vede di fronte una tale Rodelgrimo di Aquino e l'abate del monastero di Montecassino. Il placito origina dalla necessità di registrare le testimonianze di tre intervenuti in favore del monastero: la scelta "normale" sarebbe stata quella di "tradurre" in latino le deposizioni formulate in volgare (e uno dei tre testimoni, un tale Gariperto, è notaio egli stesso, per cui non avrebbe avuto problemi ad usare una formula di giuramento in latino), ma nell'occasione del Placito capuano viene fatta una scelta diversa e al latino del verbale si accompagna il volgare delle formule testimoniali. Ecco, nella parte finale del Placito, come viene registrata la testimonianza di Gariperto:
« Ille autem [Garipertus], tenens in manum  memoratam abbreviaturam, et tetigit eam cum alia manu, et testificando dixit: «Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte s(an)c(t)i Benedicti» »
Questa formula in volgare non va intesa come una registrazione del parlato, poiché viene ripetuta sempre nella stessa forma ed è anzi stata fissata dal giudice Arechisi nella precedente udienza. Si tratta, dunque, già di una standardizzazione. È possibile che la scelta di usare il volgare origini da una precisa scelta di ordine giuridico da parte dell'abate: si intese forse rendere comprensibile il verbale ad una platea ampia, anche estranea alla causa, per dissuadere altri soggetti dal ritornare sul conteso.

L'iscrizione della basilica di San Clemente[

Della fine dell'XI secolo è l'iscrizione della basilica di San Clemente, un testo organico ad un affresco (quindi non posticcio come l'iscrizione di Commodilla) che raffigura i vani tentativi del patrizio Sisinnio di far catturare san Clemente. Il testo è composto di frasi in latino e in volgare, che identificano i personaggi raffigurati e danno loro parola[. Il volgare è adottato per far parlare Sisinnio:

« Fàlite dereto co lo palo Carvoncelle - Fili de le pute traite »
cioè "Fagliti dietro col palo, Carboncello - Figli di puttana, tirate", mentre il latino serve a spiegare l'affresco e funge da giudizio:
(LA)
« Duritiam cordis vestris saxa traere meruistis »
(IT)
« La durezza dei vostri cuori vi ha fatto meritare di trascinare pietre »

È solo intorno al XIII secolo che alcuni scrittori scelgono sistematicamente e con coscienza il volgare come lingua per scopi artistici. Per altri generi di scrittura, come quella di natura pratica o occasionale, si può retrodatare ad altri casi più antichi, pur se modesti e occasionali. Le più antiche scritture in volgare rintracciate appartengono a testi come rogiti o verbali di processo, cioè documentazione d'archivio. Ricorrenze precedenti (come graffiti o brevi note) sono discusse, in quanto non è chiara la coscienza linguistica dello scrivente, se gli fosse cioè chiaro di aver operato una scelta precisa per il volgare o se pensasse piuttosto di scrivere ancora in latino.[

Dal Mille al Rinascimento

A partire dall'anno Mille i documenti cominciano a fornire testimonianze di lingua parlata: in numero ridotto fino al Duecento, e poi con una documentazione abbondantissima.
San Francesco d'Assisi (1181-1226) fu uno dei primi autori a lasciare testi poetici basati in buona parte sulla sua lingua madre (il volgare umbro), componendo il breve Cantico delle creature:
« Altissimu, onnipotente, bon Signore
tue so le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione
Ad te solo, Altissimo se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare. »
(San Francesco d'AssisiCantico di Frate Sole)
Agli ultimi anni del 1200 risale il Novellino, raccolta anonima di novelle toscane limpida testimonianza di quanto, fuori dall'ambito poetico, il volgare fiorentino fosse ormai simile alla lingua italiana moderna. Ecco come viene descritto l'incontro di Narciso con l'immagine di se stesso:
« Narcis fu molto buono e bellissimo cavaliere. Un giorno avvenne ch'elli si riposava sopra una bellissima fontana, e dentro l'acqua vide l'ombra sua molto bellissima. E cominciò a riguardarla, e rallegravasi sopra alla fonte, e l'ombra sua faceva lo simigliante. »
(Novellino, XLVI)
Dante Alighieri, o Alighiero, battezzato Durante di Alighiero degli Alighieri e anche noto con il solo nome Dante, della famiglia Alighieri (Firenze, tra il 21 maggio e il 21 giugno 1265 – Ravenna, notte tra il 13 e il 14 settembre[1] 1321), è stato un poetascrittore e politico italiano Contemporaneo al Convivio, scrisse il De vulgari eloquentia è un trattato in latino scritto da Dante tra il 1303 e il 1304[155]. Composto da un primo libro intero e da 14 capitoli del secondo libro, era inizialmente destinato a comprendere quattro libri. Pur affrontando il tema della lingua volgare, fu scritto in latino perché gli interlocutori a cui Dante si rivolse appartenevano all'élite culturale del tempo, che forte della tradizione della letteratura classica riteneva il latino senz'altro superiore a qualsiasi volgare, ma anche per conferire alla lingua volgare una maggior dignità: il latino era infatti usato soltanto per scrivere di leggereligione e trattati internazionali, cioè argomenti della massima importanza. Dante si lanciò in un'appassionata difesa del volgare, dicendo che meritava di diventare una lingua illustre in grado di competere se non uguagliare la lingua di Virgilio, sostenendo però che per diventare una lingua in grado di trattare argomenti importanti il volgare doveva essere[156]:
·         illustre (in quanto luminoso e quindi capace di dare lustro a chi ne fa uso nello scritto);
·         cardinale (tale che intorno a esso ruotassero come una porta intorno al cardine, i volgari regionali);
·         aulico (reso nobile dal suo uso dotto, tale da esser parlato nella reggia);
·         curiale (come linguaggio delle corti italiane, e da essere adoperato negli atti politici di un sovrano).
Con tali termini intendeva l'assoluta dignità del volgare anche come lingua letteraria, non più come lingua esclusivamente popolare. Dopo avere ammesso la grande dignità del siciliano illustre, la prima lingua letteraria assunta a dignità nazionale, passa in rassegna tutti gli altri volgari italiani trovando nell'uno alcune, nell'altro altre delle qualità che sommate dovrebbero costituire la lingua italiana. Dante vede nell'italiano la panthera redolens dei bestiari medievali, animale che attrae la sua preda (qui lo scrittore) con il suo irresistibile profumo, che Dante sente in tutti i volgari regionali, e in particolare nel siciliano, senza però riuscire mai a vederla materializzarsi[157]: manca in effetti ancora una lingua italiana utilizzabile in tutti i suoi registri, da tutti gli strati della popolazione della penisola italica. Per farla riapparire era dunque necessario attingere alle opere dei letterati italiani finora apparsi, cercando così di delineare un canone linguistico e letterario comune[158].
Si fermo per poi scrivere la divina commedia La Comedìa — titolo originale dell'opera: successivamente Giovanni Boccaccio attribuì l'aggettivo "Divina" al poema dantesco[161] — è il capolavoro del poeta fiorentino ed è considerata la più importante testimonianza letteraria della civiltà medievale nonché una delle più grandi opere della letteratura universale[162]. Viene definita "comedia" in quanto scritta in stile "comico", ovvero non aulico. Un'altra interpretazione si fonda sul fatto che il poema inizia da situazioni piene di dolore e paura e finisce con la pace e la sublimità della visione di Dio. Dante iniziò a lavorare all'opera intorno al 1300 (anno giubilare, tanto che egli data al 7 aprile di quell'anno il suo viaggio nella selva oscura) e la continuò nel resto della vita, pubblicando le cantiche man mano che le completava[163]. Si hanno notizie di copie manoscritte dell'Inferno intorno al 1313, mentre il Purgatorio fu pubblicato nei due anni successivi. Il Paradiso, iniziato forse nel 1316, fu pubblicato man mano che si completavano i canti negli ultimi anni di vita del poeta. 
La lingua che Dante usa nella Commedia è nuova ed estremamente varia. Non è il latino illustre di cui si parla nel De vulgari eloquentia, ma ha alla base il latino volgare egli usa il dialetto fiorentino, accolto in tutti i suoi aspetti, quello letterario e quello della vita quotidiana, con termini popolari, gergali e osceni (“pappo”= pane; “dindi”= denari; mezzule, lulla = parti della botte; striglia= arnese usato per pulire i cavalli; groppone = schiena; raffi = bastoni uncinati; andonno = andarono). ante utilizza anche voci dialettali provenienti da altri luoghi della Toscana e da altre regioni d’Italia, dal Nord (brolo = orto, burlare = cadere) al Sud (sorpriso = sorpreso; vurrìa = vorrei); e adopera moltissime parole provenienti dal latino (pande = manifesta; prande = nutre; assolto = compiuto; ignoto = infuocato, splendente; cive = cittadino), dal francese e dal provenzale (miraglio = miracolo; vengiare = vendicare; giuggiare = giudicare); si serve di “allotropi”, cioè utilizza modi diversi per scrivere la stessa parola (mangiare/manducare/manicareimagine/imago/imagesperanza/speme/spene).

E quando le parole e le espressioni esistenti non bastano, il poeta Dante ne crea delle nuove (insemprarsi = durare sempre; indracarsi= inferocirsi come un drago; inzaffirarsi = adornarsi con zaffiri; inmiarsi, inluiarsi = penetrare in me, in lui; adimare = scendere; dilibrarsi= uscire dall’equilibrio; disvicinare = allontanare; adduarsi = accoppiarsi; aggueffarsi = raggrupparsi; biscazzare = giocare; luttare = piangere; oltracotato = tracotante; sitire = aver sete...).

Il linguaggio della Commedia, oltre alla ricchezza, presenta anche un’altra caratteristica, apparentemente in contrasto: l’economicità. Dante usa una sola parola o poche parole per dire molte cose, sfruttando fino in fondo l’aspetto polisemico, la molteplicità dei significati che le parole portano con sé: una sola frase descrive la scena del suicidio di Jacopo da Sant’Andrea, fiorentino, che si impicca nella sua casa dopo aver dilapidato tutti i suoi beni («Io fei gibetto a me de le mie case» - Inferno XIII, v. 151); tre versi racchiudono la vicenda terrena di Pia de’ Tolomei («Siena mi fé, disfecemi Maremma: / salsi colui che ’nnanellata pria / disposando m’avea con la sua gemma» - Purgatorio V, vv. 135-137); poche immagini sintetizzano il principio del libero arbitrio («A maggior forza e a miglior natura/liberi soggiacete» - Purgatorio XVI, vv.79-80) e l’idea di Dio come primo motore dell’universo («La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende/in una parte più e meno altrove» - Paradiso I, vv. 1-3).

Dante usa anche tutti gli stili: passa dal tono comico a quello grottesco a quello lirico a quello drammatico e si serve delle similitudini, nelle quali è un vero maestro (ce ne sono 165 nell’Inferno, 183 nel Purgatorio, 223 nel Paradiso) insieme ad altre numerose figure retoriche.

Alcuni famosi esempi: l’allegoria iniziale («Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura /ché la diritta via era smarrita» – Inferno I, vv. 1-3), le similitudini per descrivere la passione amorosa («come fa mar per tempesta», «E come li stornei ne portan l’ali», «E come i gru van cantando lor lai», «Quali colombe, dal disìo chiamate» – Inferno V, v. 29, v. 40, v. 46, v. 82), una metafora per riassumere le possibilità di riscatto offerte dalla vita terrena («mentre che la speranza ha fior del verde» – Purgatorio III, v. 135); la perifrasi per definire Dio («colui che tutto move» – Paradiso, I, v. 1).

Nella lingua italiana dei nostri tempi sono presenti espressioni che provengono dalla Commedia di Dante. Le troviamo nelle pagine dei giornali, le ascoltiamo in televisione, le usiamo noi stessi nel quotidiano, senza sapere da dove provengono. Eccone alcune: il bel paese là dove il sì suona (spesso si usa solo il bel paese); con l’animo si vince ogni battagliascegliere fior da fioretremar per ogni venail fiero pastoalti guaigli dei falsi e bugiardila compagnia malvagia e scempianon mi tangen’hai ben dondemaestro e donnodisiato risonatio locofar tremar le vene e i polsimorta gorauomini al mal più ch’al ben usi.

A volte il significato originario di alcune espressioni viene travisato. Ad esempio: perdere il ben dell’intelletto per Dante significava ‘perdere Dio, la fede’, mentre oggi significa ‘pensare e comportarsi in modo sbagliato’.

Una frase misteriosa
Nel quarto cerchio dell’Inferno (canto VII), dove vengono puniti gli avari e i prodighi, Pluto, la mostruosa creatura che fa’ da guardiano, accoglie Dante e Virgilio con queste strane parole: «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!».

Le ipotesi sull’origine e il significato della frase sono molte.

Secondo alcuni critici è stata inventata da Dante, secondo altri invece è formata con parole che hanno una etimologia riconoscibile, come la parola Satàn, ripetuta due volte, e Pape (o papè), che potrebbe derivare dal latino papae, o dal greco παπαί (papaí), un’espressione di stupore o di rabbia che troviamo negli autori antichi. Aleppe potrebbe provenire da alef, la “A” dell’alfabeto ebraico (alep in fenicio, alfa in greco) che significa anche ‘numero uno’, ‘il principio che contiene il tutto’, un attributo della maestà di Dio. La frase sarebbe un miscuglio di latino (papae, genitivo di papa), greco (satan, col significato di ‘avversario’) ed ebraico (aleph o alefprima lettera dell'alfabeto ebraico) e significherebbe ‘Primo nemico del papa’.

Abbūd Abū Rāshid, primo traduttore arabo della Divina Commedia (Tripoli, 1930-1933), interpretò questi versi come la traslazione fonetica di una parlata araba, e li tradusse come Bāb al-shaytān. Bāb al-shaytān. Ahlibu (“La porta di Satana. La porta di Satana. Proseguite nella discesa”). Secondo alcuni studiosi islamici, Dante avrebbe tratto alcune ispirazioni da fonti. Egli infatti, anche se condanna Maometto all’Inferno, non disprezza il mondo arabo e pone ben tre musulmani tra gli Spiriti magni del Limbo: Saladino, Avicenna e Averroè. È vero che Dante non conosceva la lingua araba, ma si è fatta l’ipotesi che Brunetto Latini, suo amico, lo avesse avvicinato a questa cultura con cui era entrato in contatto durante gli anni vissuti nelle Asturie.

Alcuni critici infine, interpretano le parole come traslitterazioni dal francese: “Pas paix Satan, pas paix Satan, à l’épée” (“Niente pace Satana, niente pace Satana, alla spada”); “Paix, paix, Satan, paix, paix, Satan, allez, paix” (“Pace, pace, Satana, pace, pace, Satana, andiamo, pace”); “Pape Satan allez en paix” (“Papa Satana andate in pace”). Una di queste traslitterazioni è proposta anche da Benvenuto Cellini nella sua Vita (1558-1562), dove dichiara di aver sentito dire quella frase (“Phe phe Satan phe phe Satan alè phe”) durante una lite a Parigi e che traduce come: “Sta’ cheto, sta’ cheto, Satanasso, levati di costí, e sta’ cheto!” (2, XXVII).
La poesia di Dante Alighieri e di Francesco Petrarca dettò le regole che l'intera produzione letteraria poetica avrebbe dovuto seguire da quel momento: l'uso del volgare, pur con tutte le differenze che intercorrono dalla lingua parlata all'artificiosità della composizione poetica. Giovanni Boccaccio, grandioso prosatore fiorentino vissuto nel pieno XIV secolo, così spiega il pasto della padrona di uno dei suoi personaggi, nel Corbaccio:
« Primieramente, se grosso cappone si trovava, de' quali ella molti con gran diligenzia faceva nutricare, convenia che innanzi cotto le venisse; e le pappardelle col formaggio parmigiano similmente. Le quali non in iscodella, ma in un catino, a guisa del porco così bramosamente mangiava come se pure allora dopo lungo digiuno fosse della torre della fame fuggitasi. Le vitelle di latte, le starne, i fagiani, i tordi grassi, le tortole, le suppe lombarde, le lasagne maritate, le frittelle sambucate, i migliacci bianchi, i bramangieri, de' quali non faceva altre corpacciate che facciano di fichi, di ciriege o di poponi i villani quando ad essi s'avvengono, non curo di dirti. »
Lo stile della sua opera più famosa, il Decamerone, è però più affettato e difficile da comprendere per i locutori dell'italiano moderno:
« Ora avvenne un dì che, essendo così Federigo divenuto allo stremo, che il marito di monna Giovanna infermò, e veggendosi alla morte venire fece testamento; e essendo ricchissimo, in quello lasciò suo erede un suo figliuolo già grandicello e appresso questo, avendo molto amata monna Giovanna, lei, se avvenisse che il figliuolo senza erede legittimo morisse, suo erede substituì, e morissi. Rimasa adunque vedova monna Giovanna, come usanza è delle nostre donne, l'anno di state con questo uo figliuolo se n'andava in contado a una sua possessione assai vicina a quella di Federigo. »
È senza dubbio possibile intravedere la ricercatezza della sintassi potentemente ipotattica, tipica di una tradizione che richiama la prosa latina, e dunque uno studio certamente più spontaneo della poesia, ma ancora relativamente lontano dal volgare parlato, che almeno a Firenze si poteva già considerare somigliante all'italiano di oggi.
In questo periodo solo piccole minoranze di persone istruite, e limitatamente a determinate circostanze, si esprimono in latino od in un volgare ripulito dai tratti locali più marcati.

Dal Cinquecento all'Ottocento

Nel Cinquecento, grazie soprattutto all'influente azione di Pietro Bembo, il fiorentino trecentesco di Petrarca e di Boccaccio diventa il modello linguistico più importante per i letterati italiani. A fine Cinquecento esiste ormai un modello comune e unitario per la lingua scritta, coincidente in sostanza con l'italiano moderno. Lo schema dei rapporti tra le lingue che si forma in questo periodo rimarrà stabile per più di tre secoli: italiano unitario per l'uso scritto e per alcune situazioni eccezionali; parlate locali (definite "dialetti") per la comunicazione quotidiana anche delle persone colte.[senza fonte]
Il parlato ha ormai una forma poco distinguibile dalla lingua di oggi, come dimostra questo dialogo riportato da Barra, uno dei personaggi del Candelaio di Giordano Bruno:
« "A qual gioco", disse lui, "volemo giocare? qua ho de tarocchi". Risposi: "A questo maldetto gioco non posso vencere, perché ho una pessima memoria": Disse lui: "Ho di carte ordinarie". Risposi: "Saranno forse segnate, che voi le conoscerete. Avetele che non siino state ancor adoperate?" Lui rispose de non. "Dunque, pensiamo ad altro gioco". "Ho le tavole, sai?" "Di queste non so nulla". "Ho de scacchi, sai?" "Questo gioco mi farebbe rinegar Cristo". Allora, gli venne il senapo in testa: "A qual, dunque, diavolo di gioco vorrai giocar tu? proponi". Dico io: "A stracquare a pall'e maglio". Disse egli: "Come, a pall'e maglio? vedi tu cqua tali ordegni? vedi luoco da posservi giocare?" Dissi: "A la mirella?" "Questo è gioco da fachini, bifolchi e guardaporci". "A cinque dadi?" "Che diavolo di cinque dadi? Mai udivi di tal gioco." »
(Giordano BrunoCandelaio, atto II, scena VIII)
Se per tutto il Settecento e l'Ottocento la lingua di prestigio è il francese, tanto da portare l'uso di vocaboli d'Oltralpe per la gran parte degli oggetti di arredamento e abbigliamento, l'influenza nei dialetti più geograficamente e glottologicamente vicini al francese è fortissima.

Dal Risorgimento a oggi

La diffusione dell'italiano letterario come lingua parlata è un fenomeno relativamente recente. Nella sua Storia linguistica dell'Italia unita(1963) Tullio De Mauro ha stimato che al momento dell'unificazione solo il 2,5% degli abitanti d'Italia potesse essere definito "italofono". In mancanza di rilevazioni dirette, le stime di De Mauro si fondano solo su evidenze indirette (in particolare il livello di alfabetizzazione, su cui esistono dati abbastanza affidabili) e sono state quindi molto dibattute. Secondo la stima di Arrigo Castellani, invece, nel 1861 la percentuale di persone in grado di parlare in italiano era di almeno il 10% (2.200.000 circa), di cui la gran parte era rappresentata dai toscani, considerati italofoni per “diritto di nascita”; 435.000 erano invece gli “italofoni per cultura” cioè quelli che avevano appreso la lingua grazie allo studio scolastico. A costoro andavano tuttavia aggiunti anche gli abitanti di Roma e degli altri centri dell’Italia mediana in cui si parlavano varietà linguistiche vicine al toscano[60].
Il dibattito risorgimentale sull'esigenza di adottare una lingua comune per l'Italia, che proprio nell'Ottocentos tava nascendo come nazione, aveva visto il coinvolgimento di varie personalità come Carlo CattaneoAlessandro ManzoniNiccolò TommaseoFrancesco De Sanctis.[61]
Nel 1834 ad opera del re Carlo Alberto di Savoia  Re di Sardegna dal 27 aprile 1831 al 23 marzo 1849 venne insegnata nelle scuole elementari d'Italia,  l'italiano.
Si deve in particolare al Manzoni l'aver elevato il fiorentino a modello nazionale linguistico, con la pubblicazione nel 1842 de I promessi sposi, che sarebbe diventato il testo di riferimento della nuova prosa italiana.[61] La sua decisione di donare una lingua comune alla nuova patria, da lui riassunta nel celebre proposito di «sciacquare i panni in Arno»,[62] fu il principale contributo di Manzoni alla causa del Risorgimento.[63]
Fra le sue proposte in seno al dibattito sull'unificazione politica e sociale dell'Italia, egli sosteneva inoltre che il vocabolario fosse lo strumento più idoneo per rendere accessibile a tutti il fiorentino a livello nazionale.[64]
« Uno poi de’ mezzi più efficaci e d’un effetto più generale, particolarmente nelle nostre circostanze, per propagare una lingua, è, come tutti sanno, un vocabolario. E, secondo i princìpi e i fatti qui esposti, il vocabolario a proposito per l’Italia non potrebbe esser altro che quello del linguaggio fiorentino vivente. »
Con l'unificazione politica l'italiano si diffonde anche come lingua parlata. Nel Novecento i mezzi di comunicazione di massa contribuirono con forza a questa diffusione. All'inizio del terzo millennio le indagini ISTAT mostrano che la maggior parte della popolazione italiana è in grado di esprimersi in italiano ad un buon livello.

Principali linee evolutive

Per descrivere le caratteristiche dell'italiano parlato contemporaneo, leggermente diverso rispetto alla lingua tradizionale delle grammatiche, si fa oggi spesso riferimento alla categoria di "italiano neostandard"[65]. È infatti importante considerare che l'italiano è una lingua grammaticalmente instabile, ancora non del tutto assestata: importanti sollecitazioni dei parlanti prefigurano una rilevante alterazione in ambiti di primaria importanza e ciò a dispetto del fatto che, finora, l'italiano ha mostrato di appartenere ad un preciso tipo linguistico, caratterizzato, in rapporto alla lingua latina, da una forte "conservatività"[66]. Questi fenomeni di ristrutturazione d'impianto sono forse dovuti al fatto che l'italiano è stato a lungo una lingua esclusivamente scritta: non solo si registra l'affiorare di aspetti caratteristici dei suoi dialetti, ma si avverte anche un movimento di "semplificazione"[67]: le aree toccate da questa linee evolutive non sembrano essere quelle più conservative (sempre in rapporto al latino), ma quelle a maggior grado di complessità, come se, una volta realizzata la sua natura di "lingua parlata" a livello massivo, i parlanti abbiano opposto una resistenza alle forme più intricate e percepite come innecessarie[68]Giovanni Nencioni scrive che questa crisi di stabilità della lingua italiana va attribuita alla "rapida e impetuosa estensione della lingua nazionale a milioni di cittadini di scarsa cultura e di permanente soggezione al sostrato dialettale"[69].
Va detto che questa ristrutturazione d'impianto non è operativa a livello di "sistema" (la langue di Saussure). Se si applica all'italiano la specificazione della bipartizione langue/parole operata dal linguista rumeno Eugen Coșeriu, che distingue "sistema", "norma" e "uso", possiamo dire che la ristandardizzazione della lingua italiana è attiva su un piano dialettico tra "norma" (intesa come "norma sociale" o "norma degli utenti" e formantesi nei testi degli scrittori e nei discorsi dei parlanti) e "uso". Non sono quindi in discussione assunti di sistema, come ad esempio l'accordo tra pronome soggetto e verbo (Io mangia) o la posizione delle preposizioni rispetto agli elementi da esse modificati (La sorella Marco di ha detto che non viene). Fin dalle origini l'italiano ha visto oscillazioni nell'uso. Tali oscillazioni d'uso possono determinare riflessi sulla norma o meno. Basti pensare ai congiuntivi fantozziani del tipo Vadi lei: per quanto fossero già usati da autori come AriostoMachiavelliLeopardi, la norma sociale li sanziona con una certa fermezza. Altre oscillazioni d'uso vengono affrontate più dubitativamente dagli utenti, in modo che si crea una dialettica tra standard normativo (espresso da grammatici ed eruditi) e standard sociale (espresso soprattutto da categorie socio-professionali cui in un dato momento storico viene affidato un ruolo guida). Questa dialettica è nel segno dell'avvicinamento: da un lato il tasso di normatività delle grammatiche si è abbassato, dall'altro la norma sociale ha manifestato maggiore tolleranza verso alcuni fenomeni che prima erano ritenuti appannaggio di registri substandard.[70]
Se verso la fine del XX secolo il linguista e dialettologo Tullio Telmon poteva affermare che l'italiano era privo di una varietà standard, agli inizi del XXI secolo tale affermazione, pur rimanendo vera, va riconsiderata. In sintesi[70]:
·         sussiste ancora uno scarto sensibile tra un registro formale (per lo più nella lingua scritta) e un registro informale (per lo più nella lingua parlata);
·         la standardizzazione è piuttosto manifesta sui piani dell'ortografia, della morfologia e, appena meno, della sintassi;
·         lessico, fonologia e intonazione risentono ancora di variazioni diatopiche;
·         è in opera una semplificazione "paradigmatica", in modo che di fronte a tutte le possibilità offerte dal sistema, gli utenti tendono ad utilizzarne solo una parte;
·         la norma tende ad accogliere una serie di fenomeni che prima erano rigettati.
Va comunque sottolineato che l'utente medio tende ad interpretare il rapporto tra norma e uso in termini piuttosto netti, come se a separarli stesse una demarcazione indiscutibile e univoca. Questa sensibilità ha determinato il successo commerciale di molte operazioni editoriali tese ad offrire all'utente un soccorso "emergenziale" rispetto ai dubbi grammaticali[70].

Evoluzione dell'area lessicale

L'italiano dalla seconda metà del XX secolo si caratterizza sempre di più a livello lessicale per:
·         l'utilizzo marcato di prefissi e prefisso di per la formazione di neologismi (parastatale, ipersensibile, extraparlamentare);
·         la tendenza alla fusione e al troncamento di parole composte (cantautore, vitivinicolo);
·         una più marcata denominalizzazione tramite il suffisso -izzare (modellizzare, spettacolarizzare);
·         l'italianizzazione di verbi inglese alla prima coniugazione italiana (scioccare, filmare);
·         il calco di binomi derivati da modelli della lingua anglosassone (forza lavoro, città giardino, famiglia tipo);
·         la formazione di sostantivi da sigle o numeri (sessantottini, ciellini);
·         la tendenza alla creazione o alla diffusione di aggettivi in -ale (p.e emergenziale, museale, nutrizionale), di sostantivi in -ese (p.e. burocratese, politichese), di sostantivi in -ismo (reaganismo, creazionismo, garantismo), di sostantivi in -ità (napoletanità, notiziabilità);
·         l'uso come un unicum di sostantivo o avverbio o verbo preceduto da articolo (p.e. il privato, il già detto, il tralasciato) o da avverbio "non" (non credente, non male).








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