La nascita della lingua italiana
dall' indoeuropeo al greco al latino classico al volgare all' italiano e i suoi
dialetti.
L'italiano è una lingua
romanza Il termine “romanzo” deriva dall'avverbio latino romanice riferito al parlare vernacolo (romanice loqui) rispetto al parlare in latino (latine loqui). Da romanice deriva la forma francese romanz, da cui l'italiano romanzo. Tali parlate formano quello che in dialettologia viene chiamato continuum romanzo) o neolatina ( le lingue neolatine sono: italiano, francese, provenzale o occitana (Francia del sud) spagnolo o castigliano, catalano, e il valenziano ( dialetto catalano) portoghese , ladino parlato in Alto Adige (Südtirol), Trentino, Veneto e Friuli-Venezia Giulia.). L'italiano è una
lingua derivata dal latino, appartenente alla famiglia delle lingue indoeuropee ( che comprende tutte le
lingue europee, tra cui: latino, greco, ed
anche quelle germaniche o anglofone (tedesco ed inglese) e quelle asiatiche o nelle ramificazioni delle lingue italiche che può essere applicata a qualsiasi lingua parlata nella regione italiana nell'antichità, sia essa di ceppo indoeuropeo o no quali l'etrusco, il retico , la lingua della Stele di Novilara, il ligure, L'indoeuropeo è una
lingua virtuale: essa cioè non è storicamente verificata, ma è stata
ricostruita retrospettivamente a partire da diverse lingue, sia moderne sia
antiche. Si immagina che un gruppo di tribù, dislocate tra Europa e Asia tra
il IV e il III°millennio. a.C- e
parlanti dialetti affini, si sia sparso attraverso diverse migrazioni,
assorbendo le parlate dei popoli conquistati.
Verso la fine del II
millennio a.C., una delle popolazioni indoeuropee, che parlava il dialetto
destinato a diventare la lingua latina, si installò nella penisola italiana.
Secondo l'idea tradizionale, quindi, in età classica il
latino si impose sulle lingue delle popolazioni con cui i Romani si imbatterono
nella penisola italiana. Se tra il III e il II secolo a.C. la penisola
italiana è ancora costellata da diverse parlate, al tempo di Augusto esse
sono ridotte a "vernacoli di scarsa importanza".
Le cose,come si può capire da sopra, cambiano in età imperiale dal 27 d.
C. al 476 d.C.: anche se le varietà diatopiche delle diverse province
dell'Impero restano reciprocamente compatibili, si fa sempre più forte
l'influenza del parlato meno colto, il che è particolarmente vero con la
cosiddetta crisi del III secolo, "quando [...]
l'ignoranza dilaga"[15].
Anche in questa fase i grammatici cercano di proteggere la lingua dalla
"corruzione", non solo a Roma, ma anche nelle province. La forza innovativa
della lingua parlata, almeno fino alla crisi del III secolo, obbedisce comunque
agli orientamenti accolti nella capitale o in essa partoriti.[15] Dopo
la crisi, invece, il prestigio di Roma è compromesso: le premesse di questa
spinta centrifuga possono essere trovate in quella nova provincialium
superbia di cui si lamenta il senatore Trasea Peto ai tempi di Nerone (Tacito, Annales,
XV, 20) e significative le elezioni a imperatore di personaggi come Traiano e Adriano (nati
entrambi a Italica,
nei pressi dell'odierna Siviglia) o Antonino
Pio e Marco Aurelio (di origine gallica).
Al termine dell'età classica
Per età classica – o età attica – si intende il periodo compreso tra le guerreI
e II contro la Persia (490 Ac-479 a.C.) e la fine della guerra del Peloponneso
(404 a.C.) che oppose Sparta e Atene. sicuramente il latino parlato
aveva un ruolo importante in penisola.
Tale idioma era parlato sicuramente dagli abitanti di Roma e del Lazio, più
quelli delle aree popolate direttamente da romani. La forma esatta di questa
lingua e la sua vicinanza al latino scritto non sono però facili da accertare.
Tra gli studiosi recenti, József Herman ipotizza che ancora per tutto il VI
secolo gli abitanti dell'area europea dominata da Roma, e a maggior ragione gli
italici, parlassero (o "credessero di parlare") latino. Dai documenti
scritti non si ricavano però testimonianze esplicite.
Il latino parlato correntemente dal popolo non
corrispondeva al latino classico, modello letterario codificato da alcuni
autori tra il I secolo a.C. e il I
secolo d.C. Nel II secolo a.C. età antica Roma aveva
iniziato ad espandersi conquistando, nel corso di alcuni secoli, le varie
regioni della penisola italiana, abitate da popoli differenti sia per lingua che per razza, unificandoli
e dando così l'avvio ad una letteratura latina che
produsse grandi scrittori tra i quali Lucrezio, Catullo, Cicerone, Virgilio, Orazio, Livio, Ovidio e Tacito.
Il ligure,
già profondamente compromesso dall'impatto con le lingue
celtiche, viene definitivamente dissolto dall'avanzare del latino
La guerra
sociale (88 a.C.), dal 91 all'88 a.C. vide
opposti Roma e i municipia dell'Italia fin
allora alleati del popolo romano.
Questo segnò il declino dell'etrusco ( lingua di una popolazione insediata in Italia ma
non di origine indoeuropea essi si insediarono soprattutto in toscana e nelle
marche) e delle lingue
osco-umbre. Bruno Migliorini sostiene che dell'etrusco "nessuna
iscrizione sia posteriore all'era cristiana pare, comunque, che l'imperatore Claudio (I secolo
d.C.), nei suoi studi di etrusco, si avvalesse di parlanti e che la lingua
fosse dunque ancora viva. È poi probabile che l'etrusco sia persistito come
lingua cultuale fino al IV
secolo d.C. e che gli Etrusci haruspices che accompagnavano
gli eserciti di Giuliano consultassero libri
ancora scritti in etrusco. Il celtico potrebbe essere sopravvissuto in Gallia Francia
(e in particolare nelle Alpi
elvetiche) fino al V
secolo d.C. e forse oltre.
Il greco antico lingua ufficiale è discendente dal miceneo ( città della Grecia
antica) in cui dal II sec. A. C. si
sviluppò in età ellenistica ( altro modo di definire i greci) detta anche età
alessandrina, definito "koinè"
(κοινή) o "greco biblico". L'età ellenistica o alessandrina è quel periodo che va dal (323 a.C., anno della morte di
Alessandro Magno e terminare con la morte dell'ultima sovrana ellenistica,
Cleopatra d'Egitto e con la conquista romana del Regno tolemaico d'Egitto
(battaglia di Azio del 31 a.C.) che porta l'Oriente nell'orbita romana occidentale)).
la lingua è quella di Omero e dei suoi poemi l'Iliade e l'Odissea in età
imperiale periodo compreso tra il 27 a.C.
(proclamazione di Ottaviano come "Augusto") e il 476 d.C. (data della
deposizione di Romolo Augustolo, presa come termine dell'impero romano
d'Occidente)".; la sua
evoluzione porterà al greco bizantino e infine al greco moderno.,
Uno dei dialetti volgari più importanti fu il greco ionico attico esso veniva parlato in Grecia tra
il periodo arcaico (circa tra il IX secolo a.C. e
il VI secolo a.C.) e il periodo classico (all'incirca dal V secolo a.C. fino
al IV secolo a.C.).
Il Greco che si diffuse in Italia, soprattutto
in Calabria e Puglia, fu il dialetto greco ionico tra XI sec a.C. ed il XV sec. D.C. ,ma anche altri
dialetti greci si diffusero: il dorico, il greco nordoccidentale e l'arcado-cipriota.
Per
definire il rapporto tra latino e italiano è molto importante delineare lo
sviluppo del latino parlato, con le sue variazioni diatopiche (da
luogo a luogo) e diastratiche (secondo la stratificazione delle classi sociali), in
particolare a partire dall'età imperiale.
Il cosiddetto latino
volgare si presentava in diverse forme, con forti variazioni diatopiche: da
esso sorsero le diverse lingue
neolatine. Il latino volgare era, in quanto lingua parlata, di gran lunga
più sensibile al cambiamento di quanto non fosse il latino della tradizione
letteraria.[6] Ciò
nonostante esso conservava molti tratti che avevano accompagnato la lingua
latina fin dalla sua fase arcaica.
Importanti fondamenti del cambiamento del latino parlato
sono due fatti storici in età imperiale tra
il 27 a.C. (proclamazione di Ottaviano come "Augusto") e il 476 d.C.
(data della deposizione di Romolo Augustolo, presa come termine dell'impero
romano d'Occidente):
·
il
regime personale di Ottaviano
Augusto (I secolo a.C.-I secolo d.C.), con le sue
conseguenze sulla struttura sociale della Roma antica Auusto aveva una
propensione verso i volgarismi
·
il
diffondersi del Cristianesimo, rispetto al
quale una data importante è certo il 313 (anno dell'Editto di Milano, con cui i
due augusti Costantino e Licinio proclamano
la libertà
religiosa nell'Impero romano), anche se
"i privilegi concessi ai Cristiani segnano solo il libero espandersi di
peculiarità prima represse"
In questo contesto, è facile constatare che la lingua
scritta è più conservativa e colta ed essa era parlata dai ceti alti della
società , mentre quella parlata è più un volgare dialetto e veniva parlata
dagli analfabeti anche se sarebbe erroneo concepire latino parlato e latino
scritto come due mondi separati: l'influenza delle due forme di espressione fu
reciproca e forte, e la stessa lingua parlata dagli analfabeti influì sulla
lingua scritta.. Si può osservare che "la lingua letteraria si costituì
attraverso una stilizzazione del parlato"[13]:
ciò accadde ai tempi della Repubblica (convenzionalmente
a partire da Livio Andronico, nel 240 a.C.).
Le differenze tra parlato e scritto, lievi all'inizio, finiranno per essere
assai forti, ma prima dell'Impero lo scarto riguardava più una questione di
stile e di registro: non ci troviamo, insomma, affatto di fronte a due lingue
diverse.[13] Quando Cicerone scrive
a Papirio Peto:
« verumtamen quid tibi ego videor in epistolis? Nonne plebeio
sermone agere tecum? »
|
(Lettere familiari, IX, 21)
|
quel plebeio sermone non va certo inteso
come "latino volgare": Cicerone intende solo "alla buona"
In questo contesto si inseriscono le invasioni barbariche dal 166 al 476 d.C., , con l'insediamento di diverse popolazioni germaniche
nella penisola. Al di là dell'ingresso nelle lingue italiche di qualche
centinaio di parole germaniche, però, la presenza dei barbari non sembra aver
lasciato tracce linguistiche dirette; le loro lingue scomparvero comunque entro
il Mille, lasciando poche testimonianze scritte (della lingua
dei longobardi, che pure dominarono per due secoli una buona parte dell'Italia settentrionale e meridionale,
non è stata tramandata neanche una singola frase: come testimonianza esplicita
rimangono solo alcune parole longobarde citate in opere scritte in latino).
Solo poco prima del Mille compaiono documenti in cui si
registra una lingua parlata che, agli occhi di chi scriveva, sembrava ormai
qualcosa di diverso dal latino. I primi documenti di questo tipo sicuramente
databili risalgono infatti al X secolo, in
ritardo rispetto ad altre aree come quella spagnola e francese.
In questo periodo, con ogni probabilità, la maggioranza
delle popolazioni italiche parlava un proprio "volgare",
diatopicamente distinto e molto diverso dal latino
classico. Il latino restava però in uso presso una minoranza di persone
istruite, in massima parte sacerdoti e monaci della chiesa cattolica, che
probabilmente se ne servivano spesso anche come lingua della conversazione.
I Goti (in latino Gothones) furono una federazione di tribù
germaniche orientali che invasero
l'Europa centro-meridionale nell'ultimo periodo dell'Impero romano
d'Occidente, che, secondo le loro stesse tradizioni, erano originarie
dell'isola di Gotland e della regione di Götaland in Svezia. A ondate sbarcarono sulle coste del Mar Baltico e da qui si spinsero a sud conquistando le popolazioni
che trovarono sul loro cammino. Due tribù strettamente apparentate, i Gutar e i Götar, che rimasero in
Scandinavia, sono anche annoverate fra i Goti con i nomi, rispettivamente, di Gotlandi e Geati. E successivamente si divisero in Visigoti i( germani
occidentali ed ostrogoti i scandinavi orientali. A loro dobbiamo la diffusione di
un tipo di scrittura gotica, una particolare tipologia di
grafie dell'alfabeto latino,
sviluppatesi nell'Europa settentrionale a
partire dall'XI secolo, e poi largamente diffuse in tutto il
continente. Le lettere sono caratterizzate da una minore spaziatura rispetto al
modello grafico tondo, sopra e sotto sono rimarcate da spessi tratti, e si
riduce anche lo spazio tra le righe. L'effetto che si ottiene è quello di una
scrittura alta e spigolosa, molto elegante, ma scura e di più difficile
lettura.
Prime attestazioni antiche del volgare italiano
L'iscrizione della catacomba di Commodilla[
Tra il VI-VII secolo e
la metà del IX va datata l'iscrizione della catacomba di
Commodilla: si tratta di un testo di natura effimera, forse vergato da un
prete che officiava nella catacomba.[
Recita:
« Non dicere ille secrita a bboce »
|
Una traduzione potrebbe essere "Non dire quei
segreti ad alta voce".
L'Indovinello veronese Dell'VIII-IX secolo è
l'Indovinello veronese[53]:
« se pareba boves alba pratalia araba & albo versorio teneba
& negro semen seminaba »
|
Il Placito capuano
Maggiore accordo tra gli studiosi c'è nel dare la palma
di "atto di nascita" della lingua italiana al Placito capuano del 960[.
Tale propensione nasce soprattutto in ragione dell'ufficialità di tale
documento, trattandosi di un verbale notarile su pergamena, e
della chiara coscienza linguistica che ha il redattore (un tale Atenolfo,
notaio) dell'uso che fa del volgare. Il contenzioso vede di fronte una tale Rodelgrimo
di Aquino e l'abate del monastero di Montecassino. Il placito
origina dalla necessità di registrare le testimonianze di tre intervenuti in
favore del monastero: la scelta "normale" sarebbe stata quella di
"tradurre" in latino le deposizioni formulate in volgare (e uno dei
tre testimoni, un tale Gariperto, è notaio egli stesso, per cui non avrebbe
avuto problemi ad usare una formula di giuramento in latino), ma nell'occasione
del Placito capuano viene fatta una scelta diversa e al latino del verbale si
accompagna il volgare delle formule testimoniali. Ecco, nella parte finale
del Placito, come viene registrata la testimonianza di Gariperto:
« Ille autem [Garipertus], tenens in manum memoratam
abbreviaturam, et tetigit eam cum alia manu, et testificando dixit: «Sao ko
kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte
s(an)c(t)i Benedicti» »
|
Questa formula in volgare non va intesa come una
registrazione del parlato, poiché viene ripetuta sempre nella stessa forma ed è
anzi stata fissata dal giudice Arechisi nella precedente udienza. Si tratta,
dunque, già di una standardizzazione. È possibile che la scelta di usare il
volgare origini da una precisa scelta di ordine giuridico da parte dell'abate:
si intese forse rendere comprensibile il verbale ad una platea ampia, anche
estranea alla causa, per dissuadere altri soggetti dal ritornare sul conteso.
L'iscrizione della basilica di San Clemente[
Della
fine dell'XI secolo è l'iscrizione
della basilica di San Clemente, un
testo organico ad un affresco (quindi non
posticcio come l'iscrizione di Commodilla) che raffigura i vani tentativi del patrizio
Sisinnio di far catturare san Clemente. Il testo è composto di frasi in latino
e in volgare, che identificano i personaggi raffigurati e danno loro parola[. Il volgare è
adottato per far parlare Sisinnio:
« Fàlite dereto co lo palo Carvoncelle - Fili de le pute
traite »
|
cioè "Fagliti dietro col palo, Carboncello - Figli
di puttana, tirate", mentre il latino serve a spiegare l'affresco e funge
da giudizio:
(LA)
« Duritiam cordis vestris saxa traere meruistis »
|
(IT)
« La durezza dei vostri cuori vi ha fatto meritare di trascinare
pietre »
|
È solo intorno al XIII
secolo che alcuni scrittori scelgono sistematicamente e con coscienza
il volgare come lingua per scopi artistici. Per altri generi di scrittura, come
quella di natura pratica o occasionale, si può retrodatare ad altri casi più
antichi, pur se modesti e occasionali. Le più antiche scritture in volgare
rintracciate appartengono a testi come rogiti o
verbali di processo, cioè documentazione d'archivio. Ricorrenze precedenti
(come graffiti o brevi note) sono discusse, in quanto non è chiara la coscienza
linguistica dello scrivente, se gli fosse cioè chiaro di aver operato una
scelta precisa per il volgare o se pensasse piuttosto di scrivere ancora in
latino.[
Dal Mille al Rinascimento
A partire dall'anno Mille i documenti cominciano a
fornire testimonianze di lingua parlata: in numero ridotto fino al Duecento, e
poi con una documentazione abbondantissima.
San Francesco d'Assisi (1181-1226) fu uno dei primi
autori a lasciare testi poetici basati in buona parte sulla sua lingua madre
(il volgare umbro),
componendo il breve Cantico delle creature:
« Altissimu, onnipotente, bon Signore
tue so le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione Ad te solo, Altissimo se konfano, et nullu homo ène dignu te mentovare. » |
Agli ultimi anni del 1200 risale il Novellino,
raccolta anonima di novelle toscane limpida testimonianza di quanto, fuori
dall'ambito poetico, il volgare fiorentino fosse
ormai simile alla lingua italiana moderna. Ecco come viene descritto l'incontro
di Narciso con l'immagine di se stesso:
« Narcis fu molto buono e bellissimo cavaliere. Un giorno avvenne
ch'elli si riposava sopra una bellissima fontana, e dentro l'acqua vide
l'ombra sua molto bellissima. E cominciò a riguardarla, e rallegravasi sopra
alla fonte, e l'ombra sua faceva lo simigliante. »
|
Dante Alighieri, o Alighiero, battezzato Durante
di Alighiero degli Alighieri e anche noto con il solo nome Dante,
della famiglia Alighieri (Firenze,
tra il 21 maggio e il 21 giugno 1265 – Ravenna,
notte tra il 13 e il 14 settembre[1] 1321), è stato un poeta, scrittore e politico italiano Contemporaneo al Convivio,
scrisse il De vulgari eloquentia è un trattato in
latino scritto da Dante tra il 1303 e il 1304[155].
Composto da un primo libro intero e da 14 capitoli del secondo libro, era
inizialmente destinato a comprendere quattro libri. Pur affrontando il tema
della lingua volgare, fu scritto in latino perché gli interlocutori a cui
Dante si rivolse appartenevano all'élite culturale del tempo, che forte della
tradizione della letteratura classica riteneva il latino senz'altro superiore
a qualsiasi volgare, ma anche per conferire alla lingua volgare una maggior
dignità: il latino era infatti usato soltanto per scrivere di legge, religione e
trattati internazionali, cioè argomenti della massima importanza. Dante si
lanciò in un'appassionata difesa del volgare, dicendo che meritava di
diventare una lingua illustre in grado di competere se non uguagliare la
lingua di Virgilio, sostenendo però che per
diventare una lingua in grado di trattare argomenti importanti il volgare
doveva essere[156]:
·
illustre (in quanto luminoso e quindi
capace di dare lustro a chi ne fa uso nello scritto);
·
cardinale (tale che intorno a esso
ruotassero come una porta intorno al cardine, i volgari regionali);
·
aulico (reso nobile dal suo uso dotto,
tale da esser parlato nella reggia);
·
curiale (come linguaggio delle corti
italiane, e da essere adoperato negli atti politici di un sovrano).
Con tali termini intendeva l'assoluta dignità del
volgare anche come lingua letteraria, non più come lingua esclusivamente
popolare. Dopo avere ammesso la grande dignità del siciliano
illustre, la prima lingua letteraria assunta a dignità nazionale, passa
in rassegna tutti gli altri volgari italiani trovando nell'uno alcune,
nell'altro altre delle qualità che sommate dovrebbero costituire la lingua
italiana. Dante vede nell'italiano la panthera redolens dei bestiari
medievali, animale che attrae la sua preda (qui lo scrittore) con il suo irresistibile
profumo, che Dante sente in tutti i volgari regionali, e in particolare nel
siciliano, senza però riuscire mai a vederla materializzarsi[157]:
manca in effetti ancora una lingua italiana utilizzabile in tutti i suoi
registri, da tutti gli strati della popolazione della penisola italica. Per
farla riapparire era dunque necessario attingere alle opere dei letterati
italiani finora apparsi, cercando così di delineare un canone linguistico e
letterario comune[158].
Si fermo per poi scrivere la divina commedia La Comedìa — titolo originale
dell'opera: successivamente Giovanni Boccaccio attribuì l'aggettivo "Divina" al
poema dantesco[161] —
è il capolavoro del poeta fiorentino ed è considerata la più importante
testimonianza letteraria della civiltà medievale nonché una delle più grandi
opere della letteratura universale[162].
Viene definita "comedia" in quanto scritta in stile
"comico", ovvero non aulico. Un'altra interpretazione si fonda sul
fatto che il poema inizia da situazioni piene di dolore e paura e finisce con
la pace e la sublimità della visione di Dio. Dante iniziò a lavorare
all'opera intorno al 1300 (anno giubilare,
tanto che egli data al 7 aprile di quell'anno il suo viaggio nella selva
oscura) e la continuò nel resto della vita, pubblicando le cantiche man
mano che le completava[163].
Si hanno notizie di copie manoscritte dell'Inferno intorno al 1313, mentre il Purgatorio fu pubblicato nei due anni successivi.
Il Paradiso, iniziato forse nel 1316, fu pubblicato man mano
che si completavano i canti negli ultimi anni di vita del poeta.
La lingua che Dante usa nella Commedia è nuova ed
estremamente varia. Non è il latino illustre di cui si
parla nel De vulgari eloquentia, ma ha alla base il latino volgare egli usa il
dialetto fiorentino, accolto in tutti i suoi aspetti, quello letterario e
quello della vita quotidiana, con termini popolari, gergali e osceni (“pappo”=
pane; “dindi”= denari; mezzule, lulla = parti
della botte; striglia= arnese usato per pulire i cavalli; groppone =
schiena; raffi = bastoni uncinati; andonno =
andarono). ante utilizza anche voci dialettali provenienti da altri
luoghi della Toscana e da altre regioni d’Italia, dal Nord (brolo =
orto, burlare = cadere) al Sud (sorpriso =
sorpreso; vurrìa = vorrei); e adopera moltissime parole
provenienti dal latino (pande = manifesta; prande =
nutre; assolto = compiuto; ignoto =
infuocato, splendente; cive = cittadino), dal francese e
dal provenzale (miraglio = miracolo; vengiare =
vendicare; giuggiare = giudicare); si serve di
“allotropi”, cioè utilizza modi diversi per scrivere la stessa parola (mangiare/manducare/manicare; imagine/imago/image; speranza/speme/spene).
E quando le parole e le espressioni esistenti non bastano, il poeta Dante ne crea delle nuove (insemprarsi = durare sempre; indracarsi= inferocirsi come un drago; inzaffirarsi = adornarsi con zaffiri; inmiarsi, inluiarsi = penetrare in me, in lui; adimare = scendere; dilibrarsi= uscire dall’equilibrio; disvicinare = allontanare; adduarsi = accoppiarsi; aggueffarsi = raggrupparsi; biscazzare = giocare; luttare = piangere; oltracotato = tracotante; sitire = aver sete...). Il linguaggio della Commedia, oltre alla ricchezza, presenta anche un’altra caratteristica, apparentemente in contrasto: l’economicità. Dante usa una sola parola o poche parole per dire molte cose, sfruttando fino in fondo l’aspetto polisemico, la molteplicità dei significati che le parole portano con sé: una sola frase descrive la scena del suicidio di Jacopo da Sant’Andrea, fiorentino, che si impicca nella sua casa dopo aver dilapidato tutti i suoi beni («Io fei gibetto a me de le mie case» - Inferno XIII, v. 151); tre versi racchiudono la vicenda terrena di Pia de’ Tolomei («Siena mi fé, disfecemi Maremma: / salsi colui che ’nnanellata pria / disposando m’avea con la sua gemma» - Purgatorio V, vv. 135-137); poche immagini sintetizzano il principio del libero arbitrio («A maggior forza e a miglior natura/liberi soggiacete» - Purgatorio XVI, vv.79-80) e l’idea di Dio come primo motore dell’universo («La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende/in una parte più e meno altrove» - Paradiso I, vv. 1-3). Dante usa anche tutti gli stili: passa dal tono comico a quello grottesco a quello lirico a quello drammatico e si serve delle similitudini, nelle quali è un vero maestro (ce ne sono 165 nell’Inferno, 183 nel Purgatorio, 223 nel Paradiso) insieme ad altre numerose figure retoriche. Alcuni famosi esempi: l’allegoria iniziale («Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura /ché la diritta via era smarrita» – Inferno I, vv. 1-3), le similitudini per descrivere la passione amorosa («come fa mar per tempesta», «E come li stornei ne portan l’ali», «E come i gru van cantando lor lai», «Quali colombe, dal disìo chiamate» – Inferno V, v. 29, v. 40, v. 46, v. 82), una metafora per riassumere le possibilità di riscatto offerte dalla vita terrena («mentre che la speranza ha fior del verde» – Purgatorio III, v. 135); la perifrasi per definire Dio («colui che tutto move» – Paradiso, I, v. 1). Nella lingua italiana dei nostri tempi sono presenti espressioni che provengono dalla Commedia di Dante. Le troviamo nelle pagine dei giornali, le ascoltiamo in televisione, le usiamo noi stessi nel quotidiano, senza sapere da dove provengono. Eccone alcune: il bel paese là dove il sì suona (spesso si usa solo il bel paese); con l’animo si vince ogni battaglia; scegliere fior da fiore; tremar per ogni vena; il fiero pasto; alti guai; gli dei falsi e bugiardi; la compagnia malvagia e scempia; non mi tange; n’hai ben donde; maestro e donno; disiato riso; natio loco; far tremar le vene e i polsi; morta gora; uomini al mal più ch’al ben usi. A volte il significato originario di alcune espressioni viene travisato. Ad esempio: perdere il ben dell’intelletto per Dante significava ‘perdere Dio, la fede’, mentre oggi significa ‘pensare e comportarsi in modo sbagliato’. Una frase misteriosa Nel quarto cerchio dell’Inferno (canto VII), dove vengono puniti gli avari e i prodighi, Pluto, la mostruosa creatura che fa’ da guardiano, accoglie Dante e Virgilio con queste strane parole: «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!». Le ipotesi sull’origine e il significato della frase sono molte. Secondo alcuni critici è stata inventata da Dante, secondo altri invece è formata con parole che hanno una etimologia riconoscibile, come la parola Satàn, ripetuta due volte, e Pape (o papè), che potrebbe derivare dal latino papae, o dal greco παπαί (papaí), un’espressione di stupore o di rabbia che troviamo negli autori antichi. Aleppe potrebbe provenire da alef, la “A” dell’alfabeto ebraico (alep in fenicio, alfa in greco) che significa anche ‘numero uno’, ‘il principio che contiene il tutto’, un attributo della maestà di Dio. La frase sarebbe un miscuglio di latino (papae, genitivo di papa), greco (satan, col significato di ‘avversario’) ed ebraico (aleph o alefprima lettera dell'alfabeto ebraico) e significherebbe ‘Primo nemico del papa’. Abbūd Abū Rāshid, primo traduttore arabo della Divina Commedia (Tripoli, 1930-1933), interpretò questi versi come la traslazione fonetica di una parlata araba, e li tradusse come Bāb al-shaytān. Bāb al-shaytān. Ahlibu (“La porta di Satana. La porta di Satana. Proseguite nella discesa”). Secondo alcuni studiosi islamici, Dante avrebbe tratto alcune ispirazioni da fonti. Egli infatti, anche se condanna Maometto all’Inferno, non disprezza il mondo arabo e pone ben tre musulmani tra gli Spiriti magni del Limbo: Saladino, Avicenna e Averroè. È vero che Dante non conosceva la lingua araba, ma si è fatta l’ipotesi che Brunetto Latini, suo amico, lo avesse avvicinato a questa cultura con cui era entrato in contatto durante gli anni vissuti nelle Asturie. Alcuni critici infine, interpretano le parole come traslitterazioni dal francese: “Pas paix Satan, pas paix Satan, à l’épée” (“Niente pace Satana, niente pace Satana, alla spada”); “Paix, paix, Satan, paix, paix, Satan, allez, paix” (“Pace, pace, Satana, pace, pace, Satana, andiamo, pace”); “Pape Satan allez en paix” (“Papa Satana andate in pace”). Una di queste traslitterazioni è proposta anche da Benvenuto Cellini nella sua Vita (1558-1562), dove dichiara di aver sentito dire quella frase (“Phe phe Satan phe phe Satan alè phe”) durante una lite a Parigi e che traduce come: “Sta’ cheto, sta’ cheto, Satanasso, levati di costí, e sta’ cheto!” (2, XXVII). |
La poesia di Dante
Alighieri e di Francesco Petrarca dettò le regole che
l'intera produzione letteraria poetica avrebbe dovuto seguire da quel momento:
l'uso del volgare, pur con tutte le differenze che intercorrono dalla lingua
parlata all'artificiosità della composizione poetica. Giovanni Boccaccio, grandioso prosatore fiorentino
vissuto nel pieno XIV secolo, così spiega il pasto della padrona di uno
dei suoi personaggi, nel Corbaccio:
« Primieramente, se grosso cappone si trovava, de' quali ella molti
con gran diligenzia faceva nutricare, convenia che innanzi cotto le venisse;
e le pappardelle col formaggio parmigiano similmente. Le quali non in
iscodella, ma in un catino, a guisa del porco così bramosamente mangiava come
se pure allora dopo lungo digiuno fosse della torre della fame fuggitasi. Le
vitelle di latte, le starne, i fagiani, i tordi grassi, le tortole, le suppe
lombarde, le lasagne maritate, le frittelle sambucate, i migliacci bianchi, i
bramangieri, de' quali non faceva altre corpacciate che facciano di fichi, di
ciriege o di poponi i villani quando ad essi s'avvengono, non curo di
dirti. »
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Lo stile della sua opera più famosa, il Decamerone,
è però più affettato e difficile da comprendere per i locutori dell'italiano
moderno:
« Ora avvenne un dì che, essendo così Federigo divenuto allo
stremo, che il marito di monna Giovanna infermò, e veggendosi alla morte
venire fece testamento; e essendo ricchissimo, in quello lasciò suo erede un
suo figliuolo già grandicello e appresso questo, avendo molto amata monna
Giovanna, lei, se avvenisse che il figliuolo senza erede legittimo morisse,
suo erede substituì, e morissi. Rimasa adunque vedova monna Giovanna, come
usanza è delle nostre donne, l'anno di state con questo uo figliuolo se
n'andava in contado a una sua possessione assai vicina a quella di
Federigo. »
|
È senza dubbio possibile intravedere la ricercatezza
della sintassi potentemente ipotattica,
tipica di una tradizione che richiama la prosa latina, e dunque uno studio
certamente più spontaneo della poesia, ma ancora relativamente lontano dal
volgare parlato, che almeno a Firenze si poteva già considerare somigliante
all'italiano di oggi.
In questo periodo solo piccole minoranze di persone
istruite, e limitatamente a determinate circostanze, si esprimono in latino od
in un volgare ripulito dai tratti locali più marcati.
Dal Cinquecento all'Ottocento
Nel Cinquecento, grazie soprattutto all'influente azione di Pietro
Bembo, il fiorentino trecentesco di Petrarca e di Boccaccio diventa il
modello linguistico più importante per i letterati italiani. A fine Cinquecento
esiste ormai un modello comune e unitario per la lingua scritta, coincidente in
sostanza con l'italiano moderno. Lo
schema dei rapporti tra le lingue che si forma in questo periodo rimarrà
stabile per più di tre secoli: italiano unitario per l'uso scritto e per alcune
situazioni eccezionali; parlate locali (definite "dialetti")
per la comunicazione quotidiana anche delle persone colte.[senza fonte]
Il parlato ha ormai una forma poco distinguibile dalla
lingua di oggi, come dimostra questo dialogo riportato da Barra, uno dei
personaggi del Candelaio di Giordano
Bruno:
« "A qual gioco", disse lui, "volemo giocare? qua ho
de tarocchi". Risposi: "A questo maldetto gioco non posso vencere,
perché ho una pessima memoria": Disse lui: "Ho di carte
ordinarie". Risposi: "Saranno forse segnate, che voi le
conoscerete. Avetele che non siino state ancor adoperate?" Lui rispose
de non. "Dunque, pensiamo ad altro gioco". "Ho le tavole,
sai?" "Di queste non so nulla". "Ho de scacchi,
sai?" "Questo gioco mi farebbe rinegar Cristo". Allora, gli
venne il senapo in testa: "A qual, dunque, diavolo di gioco vorrai
giocar tu? proponi". Dico io: "A stracquare a pall'e maglio".
Disse egli: "Come, a pall'e maglio? vedi tu cqua tali ordegni? vedi
luoco da posservi giocare?" Dissi: "A la mirella?"
"Questo è gioco da fachini, bifolchi e guardaporci". "A cinque
dadi?" "Che diavolo di cinque dadi? Mai udivi di tal
gioco." »
|
Se per tutto il Settecento e l'Ottocento la
lingua di prestigio è il francese,
tanto da portare l'uso di vocaboli d'Oltralpe per la gran parte degli oggetti
di arredamento e abbigliamento,
l'influenza nei dialetti più geograficamente e glottologicamente vicini al
francese è fortissima.
Dal Risorgimento a oggi
La diffusione dell'italiano letterario come lingua
parlata è un fenomeno relativamente recente. Nella sua Storia
linguistica dell'Italia unita(1963) Tullio
De Mauro ha stimato che al momento dell'unificazione solo il 2,5%
degli abitanti d'Italia potesse essere definito "italofono". In
mancanza di rilevazioni dirette, le stime di De Mauro si fondano solo su evidenze
indirette (in particolare il livello di alfabetizzazione, su cui esistono dati
abbastanza affidabili) e sono state quindi molto dibattute. Secondo la stima
di Arrigo Castellani, invece, nel 1861 la
percentuale di persone in grado di parlare in italiano era di almeno il 10%
(2.200.000 circa), di cui la gran parte era rappresentata dai toscani,
considerati italofoni per “diritto di nascita”; 435.000 erano invece gli “italofoni
per cultura” cioè quelli che avevano appreso la lingua grazie allo studio
scolastico. A costoro andavano tuttavia aggiunti anche gli abitanti di Roma e
degli altri centri dell’Italia mediana in cui si parlavano varietà linguistiche
vicine al toscano[60].
Il dibattito risorgimentale sull'esigenza di adottare una
lingua comune per l'Italia, che proprio nell'Ottocentos
tava nascendo come nazione, aveva visto il coinvolgimento di varie personalità
come Carlo Cattaneo, Alessandro Manzoni, Niccolò Tommaseo, Francesco De Sanctis.[61]
Nel 1834 ad opera del re
Carlo Alberto di Savoia Re di
Sardegna dal 27 aprile 1831 al 23 marzo 1849 venne insegnata
nelle scuole elementari d'Italia,
l'italiano.
Si deve in particolare al Manzoni l'aver elevato il fiorentino a modello nazionale
linguistico, con la pubblicazione nel 1842 de I
promessi sposi, che sarebbe diventato il testo di riferimento della
nuova prosa italiana.[61] La
sua decisione di donare una lingua comune alla nuova patria, da lui riassunta
nel celebre proposito di «sciacquare i panni in Arno»,[62] fu
il principale contributo di Manzoni alla causa del Risorgimento.[63]
Fra le sue proposte in seno al dibattito
sull'unificazione politica e sociale dell'Italia, egli sosteneva inoltre che
il vocabolario fosse
lo strumento più idoneo per rendere accessibile a tutti il fiorentino a livello
nazionale.[64]
« Uno poi de’ mezzi più efficaci e d’un effetto più generale,
particolarmente nelle nostre circostanze, per propagare una lingua, è, come
tutti sanno, un vocabolario. E, secondo i princìpi e i fatti qui esposti, il
vocabolario a proposito per l’Italia non potrebbe esser altro che quello del
linguaggio fiorentino vivente. »
|
Con l'unificazione politica l'italiano si diffonde anche
come lingua parlata. Nel Novecento i mezzi di comunicazione di massa
contribuirono con forza a questa diffusione. All'inizio del terzo millennio le
indagini ISTAT mostrano che la maggior parte della popolazione italiana è in
grado di esprimersi in italiano ad un buon livello.
Principali linee evolutive
Per descrivere le caratteristiche dell'italiano parlato
contemporaneo, leggermente diverso rispetto alla lingua tradizionale delle
grammatiche, si fa oggi spesso riferimento alla categoria di "italiano neostandard"[65].
È infatti importante considerare che l'italiano è una lingua grammaticalmente
instabile, ancora non del tutto assestata: importanti sollecitazioni dei
parlanti prefigurano una rilevante alterazione in ambiti di primaria importanza
e ciò a dispetto del fatto che, finora, l'italiano ha mostrato di appartenere
ad un preciso tipo linguistico, caratterizzato, in rapporto alla lingua
latina, da una forte "conservatività"[66].
Questi fenomeni di ristrutturazione d'impianto sono forse dovuti al fatto che
l'italiano è stato a lungo una lingua esclusivamente scritta: non solo si
registra l'affiorare di aspetti caratteristici dei suoi dialetti, ma si avverte
anche un movimento di "semplificazione"[67]:
le aree toccate da questa linee evolutive non sembrano essere quelle più
conservative (sempre in rapporto al latino), ma quelle a maggior grado di
complessità, come se, una volta realizzata la sua natura di "lingua
parlata" a livello massivo, i parlanti abbiano opposto una resistenza alle
forme più intricate e percepite come innecessarie[68]. Giovanni
Nencioni scrive che questa crisi di stabilità della lingua italiana va
attribuita alla "rapida e impetuosa estensione della lingua nazionale a
milioni di cittadini di scarsa cultura e di permanente soggezione al sostrato
dialettale"[69].
Va detto che questa ristrutturazione d'impianto non è
operativa a livello di "sistema" (la langue di Saussure). Se si applica all'italiano la
specificazione della bipartizione langue/parole operata
dal linguista rumeno Eugen
Coșeriu, che distingue "sistema", "norma" e
"uso", possiamo dire che la ristandardizzazione della lingua italiana
è attiva su un piano dialettico tra "norma" (intesa come "norma
sociale" o "norma degli utenti" e formantesi nei testi degli
scrittori e nei discorsi dei parlanti) e "uso". Non sono quindi in
discussione assunti di sistema, come ad esempio l'accordo tra pronome soggetto
e verbo (Io mangia) o la posizione delle preposizioni rispetto agli
elementi da esse modificati (La sorella Marco di ha detto
che non viene). Fin dalle origini l'italiano ha visto oscillazioni
nell'uso. Tali oscillazioni d'uso possono determinare riflessi sulla norma o
meno. Basti pensare ai congiuntivi fantozziani del
tipo Vadi lei: per quanto fossero già usati da autori come Ariosto, Machiavelli, Leopardi,
la norma sociale li sanziona con una certa fermezza. Altre oscillazioni d'uso
vengono affrontate più dubitativamente dagli utenti, in modo che si crea una
dialettica tra standard normativo (espresso da grammatici ed eruditi) e
standard sociale (espresso soprattutto da categorie socio-professionali cui in
un dato momento storico viene affidato un ruolo guida). Questa dialettica è nel
segno dell'avvicinamento: da un lato il tasso di normatività delle grammatiche
si è abbassato, dall'altro la norma sociale ha manifestato maggiore tolleranza
verso alcuni fenomeni che prima erano ritenuti appannaggio di registri
substandard.[70]
Se verso la fine del XX secolo il
linguista e dialettologo Tullio
Telmon poteva affermare che l'italiano era privo di una varietà
standard, agli inizi del XXI secolo tale affermazione, pur rimanendo vera,
va riconsiderata. In sintesi[70]:
·
sussiste
ancora uno scarto sensibile tra un registro formale (per lo più nella lingua
scritta) e un registro informale (per lo più nella lingua parlata);
·
la
standardizzazione è piuttosto manifesta sui piani dell'ortografia, della
morfologia e, appena meno, della sintassi;
·
lessico,
fonologia e intonazione risentono ancora di variazioni diatopiche;
·
è
in opera una semplificazione "paradigmatica", in modo che di fronte a
tutte le possibilità offerte dal sistema, gli utenti tendono ad utilizzarne
solo una parte;
·
la
norma tende ad accogliere una serie di fenomeni che prima erano rigettati.
Va comunque sottolineato che l'utente medio tende ad
interpretare il rapporto tra norma e uso in termini piuttosto netti, come se a
separarli stesse una demarcazione indiscutibile e univoca. Questa sensibilità
ha determinato il successo commerciale di molte operazioni editoriali tese ad
offrire all'utente un soccorso "emergenziale" rispetto ai dubbi
grammaticali[70].
Evoluzione dell'area lessicale
L'italiano dalla seconda metà del XX secolo si
caratterizza sempre di più a livello lessicale per:
·
l'utilizzo
marcato di prefissi e prefisso di per la formazione di neologismi (parastatale,
ipersensibile, extraparlamentare);
·
la
tendenza alla fusione e al troncamento di parole composte (cantautore,
vitivinicolo);
·
una
più marcata denominalizzazione tramite il suffisso -izzare (modellizzare, spettacolarizzare);
·
l'italianizzazione
di verbi inglese alla prima coniugazione italiana (scioccare, filmare);
·
il
calco di binomi derivati da modelli della lingua anglosassone (forza lavoro,
città giardino, famiglia tipo);
·
la
formazione di sostantivi da sigle o numeri (sessantottini, ciellini);
·
la
tendenza alla creazione o alla diffusione di aggettivi in -ale (p.e
emergenziale, museale, nutrizionale), di sostantivi in -ese (p.e. burocratese,
politichese), di sostantivi in -ismo (reaganismo, creazionismo, garantismo), di
sostantivi in -ità (napoletanità, notiziabilità);
·
l'uso
come un unicum di sostantivo o avverbio o verbo preceduto da articolo (p.e. il
privato, il già detto, il tralasciato) o da avverbio "non" (non
credente, non male).
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